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recensione di Bellofiore, R., L'Indice 1995, n. 4
Troppe merci, poco lavoro. Questo è il carattere che ha assunto, in modo tendenzialmente irreversibile, la contraddizione capitalistica secondo Giorgio Lunghini. L'innovazione tecnologica non ha in questa fase carattere incrementale, n‚ si accompagna a un, naturale o indotto, ampliamento del mercato. È invece radicale, rivoluziona il sistema di macchine e l'organizzazione del lavoro, a fronte, da un lato, di una saturazione della domanda di beni di consumo durevole, e dunque di un sostanziale ristagno della produzione di merci, e, dall'altro lato, di una crescente globalizzazione finanziaria e produttiva dell'economia, e dunque di una irreversibile crisi delle politiche economiche incentrate sullo stato-nazione. Informatizzazione del lavoro, toyotismo, crisi del keynesismo, insomma. Nella fabbrica il comando sul lavoro è ormai autoimposizione e autocontrollo. Nella distribuzione, il salario è disciplinato dalla mobilità del capitale. Nel mercato, prevale l'incertezza, le aspettative di lungo periodo degli imprenditori si deprimono, l'orizzonte delle decisioni di investimento si accorcia, la speculazione finanziaria diviene il gioco preferito. Del Keynes degli anni trenta poco sembra spendibile oggi. Premature le "Prospettive economiche per i nostri nipoti". Anticipavano con lungimiranza la malattia della nostra epoca, la disoccupazione tecnologica, e la sfida a cui siamo chiamati, trasformare l'espulsione di lavoratori in generale riduzione dell'orario di lavoro e in ozio produttivo. Sottostimavano però le difficoltà da superare, e il tempo necessario affinché si formasse il nuovo tipo umano in grado di godere, e non di patire, del tempo liberato. Obsoleta la "Teoria generale". Perché la crescita della produzione di merci, magari trainata da politiche di espansione della domanda effettiva, non comporta ormai crescita dell'occupazione.
Le spiegazioni tradizionali della disoccupazione, e le soluzioni sperimentate, non valgono più. La disoccupazione attuale non è n‚ mera oscillazione ciclica e frizionale attorno a una piena occupazione automaticamente garantita dal libero funzionamento del mercato, n‚ temporanea espulsione di lavoratori dovuta a un cambiamento tecnico ondulatorio che sarebbe compensata dalla creazione di nuovi prodotti e dunque di nuovi posti di lavoro, n‚ l'esito di salari reali troppo elevati o di una domanda di merci insufficiente. Basterebbe, in questi casi, o lasciar fare al mercato, o indurre alla ragione i sindacati; o intervenire con maggiori iniezioni di una generica domanda pubblica. Negli ultimi anni - scrive Lunghini - è intervenuto un cambiamento strutturale nel modo capitalistico di produzione-riproduzione delle merci e della società. La disoccupazione creata dalle fasi di riduzione della produzione viene cristallizzata da ristrutturazioni tecnologiche e organizzative, sicché quando la produzione riprende le imprese non assumono nuovi lavoratori. "La forza-lavoro è una merce la cui quantità domandata è flessibile soltanto verso il basso.
Lunghini critica due delle soluzioni dibattute negli ultimi tempi. Non è accettabile la proposta di un reddito di cittadinanza. La percezione di un reddito da lavoro anziché da trasferimenti è infatti condizione dell'autonomia economica e politica. Non è convincente neanche una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro mirata a redistribuire il poco lavoro tra tutti. Per essere efficace presuppone alti salari e la piena occupazione, in modo da non tramutarsi in doppio lavoro dei già occupati. E dovrebbe avere estensione internazionale, in modo che l'aumento dei costi unitari e la riduzione dei margini di profitti non conduca a una fuga del capitale.
Dimenticare la piena occupazione, allora? Nient'affatto. L'uscita dall'età dello spreco, da quella atroce anomalia che vede crescere insieme disoccupazione e bisogni sociali insoddisfatti, va cercata "altrove": fuori dallo spazio mercantile-capitalistico, che la tendenza attuale peraltro si incarica di restringere sempre più. La riduzione dei lavoratori occupati nella produzione di merci deve essere battuta dalla creazione di lavori socialmente utili. Per Lunghini, alla contrazione del lavoro salariato (che è tale, al di là della forma giuridica, in quanto lavoro eterodiretto) corrisponde un arretramento del lavoro "astratto" di marxiana memoria, cioè del lavoro impiegato allo scopo immediato del profitto. I lavori socialmente utili da mettere in moto sono invece lavori "concreti" destinati immediatamente alla produzione di valori d'uso, capaci di soddisfare bisogni che il capitale non vede perché non hanno dietro di sé potere d'acquisto: educazione, cultura, cura dei singoli, del tessuto sociale, della natura. Stimolando attività di questo genere, lo Stato investirebbe in un settore ad alta capacità di assorbimento di manodopera, con un forte ancoraggio territoriali, poco esposto alla concorrenza internazionale, e in grado di aumentare il benessere materiale pur con salari monetari costanti. Aumenterebbe indirettamente la produttività del settore che produce valori di scambio, e al tempo stesso crescerebbe nella società un sistema comunitario di relazioni rette dai valori della reciprocità della durata, della gratuità, della cultura: "una prospettiva di benessere nell'austerità ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà".
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