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recensione di Bertone, G., L'Indice 1996, n. 3
Se uno scrittore come Primo Levi, al termine della sua "antologia personale", dichiarò di sentirsi come vivisezionato ("Non ho mai subito operazioni chirurgiche; questo libro me ne è sembrato l'equivalente incruento... si vede che uno straccio di es ce l'ho anch'io", a Giulio Bollati il 2 settembre 1980), un critico come Pier Vincenzo Mengaldo, proprio mentre propone al lettore - volutamente il medesimo - un manufatto analogo consolidando il "genere", procede e conclude altrimenti.
C'era da aspettarselo: anche la miscela tra prelievi letterari e memoria personale, che pur c'è in forme dolcemente iniettate lungo il discorso che inanella i testi, è ben trattenuta al di qua del punto di fusione in puro autobiografismo.
Le scelte già dicono qualcosa: Omero, Shakespeare, Racine, Goethe, Hölderlin, Puskin, Stendhal, Tolstoj, Orazio, Maupassant, Arrigo Boito, Cechov, Joyce, Apollinaire, Thomas Mann, Machado, Kawabata. Alcuni filosofi e pensatori: Platone, Hegel, Marx, Freud, Kraus, Adorno. Tre pittori: Vel zquez, Hokusai, Monet. Non mancano "Tre musicisti" e, in, premessa, una secca serie di scene cinematografiche. Niente, neppure nei titoli, allude a espliciti temi guida. (Ma almeno uno potremmo segnalarlo: l'amore, l'amore coniugale, l'amore amicale, l'amore senile, l'amore libertino, l'amore per il bello, ecc; al lettore trovare tutto il filo).
Conteranno poi le singole pagine, vero. E le ragioni, ancor più. Ma, intanto: tutte scelte alte. Non si scende sotto Maupassant. Mai un'indulgenza, mai il gusto della cronaca o del recupero adolescenziale, che so, un Salgari restituito a dignità filosofica magari attraverso l'infanzia "berlinese" di qualcuno dei teutoni citati e citabili. Questa è un'antologia "superba" nel senso del suo Dante, quello del DVE: rivolta all'insù, allo stile "tragico" (inclusi, s'intende, gli esemplari comici o melodrammatici come "Falstaff").
Le affabilità verso il lettore non garantiscono (come mai garantiscono nel Mengaldo critico-critico) alcuna tregua o indugio, ma solo chiarezza di dettato e immediatezza di approccio. Al ricevente sforzarsi verso l'alto; si adegui. Sulle idee, sui contenuti, sulle forme ci si misura anche qui, eccome: il tasso di maggiore giurisdizione (questo è bello, questo no, questi i buoni, quelli alcuni dei cattivi) va meno a carico del soggettivismo della storia personale - che potrebbe illudere l'ingenuo utente - che a carico di una intenzionalità di sintesi teorica e didascalica. Una lezione diretta, cuore e mente operanti assieme. Perché i brani (a volte troppo brevi) sono avviati a regime e riscattati nella loro funzionalità documentaria da commenti a tutto tondo di una vivezza e sensibilità precise e attente al particolare e al generale, implacabilmente - quando l'implacabilità è una forma dell'amore - avvinti alle loro prede, mai esausti di fronte anche a filosofi o a pittori: ampio giro descrittivo più affondo definitorio, tendenzialmente aforistico e memorabile; secondo un concetto di verità garantita dallo stile dell'intelligenza che è una forma, se non della saggezza, della sapienza.
A stralciare esempi, si tradisce la formidabile ricchezza; ma si potrà sforbiciare alla brava: Ettore e Andromaca "il passo più 'virgiliano' che Omero l'onnipotente abbia scritto" e giù spiegazione; "Se rileggo o risento il meraviglioso, dolcissimo dialogato fra Lady Macduff e il figlioletto (che stanno per essere uccisi) nel "Macbeth", mi chiedo come ha fatto quel mostro [Shakespeare] a fissare una tal poesia dell'amore materno e filiale, inteneriti di gioco, tanto prima della nascita della famiglia (moderna)"; "Orazio non è saggio, ha la tristezza del limite", ecc.
Inutile quindi il gioco, buono in altre occasioni, del contrapporre. Inutile spulciare l'elenco degli assenti: ma come? non c'è Cervantes? n‚ Melville, n‚ Conrad? Non c'è neppure Celan? Proprio lui "il maggior poeta del dopoguerra" "(La tradizione del Novecento", nuova serie). Né Benjamin? (invero recuperato attraverso Adorno, ma poi abbastanza raro pure nell'indice dei nomi espliciti dei libri di Mengaldo). E neppure puntare i piedi e ribattere che il grande moderno non è Monet ma Cézanne. In mano gli assi li ha sempre l'antologista secondo patto sotteso al genere.
Rinunciando a una rassegna delle sue letture ordinata per schema (i meridiani di Levi dal Polo Nord di Giobbe al Polo Sud dei buchi neri), o alla forma espositiva tipo "Memos" o "Passeggiate", ecc., e adottando la forma più tradizionale dell'antologia, Mengaldo ha inteso impegnarsi e impegnarci in un più stretto ingaggio coi testi e i personaggi letterari, con deposito di qualche metro universale: "Il maggior lirico mai esistito [Hölderlin] misuro su di lui tutti i lirici", e non senza qualche minaccia: "Io diffido violentemente di chi non ama Cechov"; e cfr. su "Guerra e pace".
Impegno in una prova, dunque. Prova di auscultazione che l'antologista fa qui con l'orecchio rivolto sul testo e le mani a conchiglia marina su di esso. E prova di interpretazione senza il ricorso esplicito e qui ingombrante ai metodi soliti (linguistico, metrico...), che non vengono però accantonati, semmai messi in circolo ben digeriti e peptonizzati in pasta vitale.
L'alto valore morale di un simile libro suona pure a (indiretta?) polemica con la parcellizzazione o la vacuità della critica in perenne schivata del "punto" e forse anche contro l'antologismo più corrente e dispersivo (innanzitutto quello scolastico; e allora nel full di letteratura classica-filosofia-arte-musica e un po' di cine qualcuno vedrà persino il contromodello di una "nuova scuola).
Libro più antidecostruzionista in effetti non poteva darsi. Del resto ciò che lo garantisce è proprio la robustezza dell'armatura ossea: non c'è critica e non c'è critico, non c'è neppure lettura, senza un pensiero o un rapporto filosofico coi temi e col tempo proprio. Era già convinzione espressa altrove dall'autore, e qui resa più evidente e visibilmente operante nel ritmo serrato dei "pezzi".
In un quadro così ampio, da Omero a Monet, da Orazio a Bergman, la letteratura e l'arte si pongono allora, non più solo come misura e intelligenza delle cose e del bello, ma come esperienza impregnata dell'esistenza, al limite della surrogazione. L'autobiografismo arriva proprio dall'aldilà delle opere. Difficile, doppiamente difficile perciò condividere la premessa che "in verità non si impara dai libri o dalle opere ma s'impara dagli uomini", contraddittoria se le si dà un valore assoluto riservato ai grandi. Che dobbiamo imparare dalla biografia di Monet, di Kraus, di Mozart, di Marx o di Proust? L'apoftegma varrà in certi casi e sempre in quelli dove persona e opera coincidono: Dio e il padre.
Per questo ci teniamo ben vicina tal "antologia personale" di opere e tal commento e intenso inno alla letteratura e all'arte, e alla loro tradizione perenne, sicuri di poterla all'occasione riacciuffare per un confronto sapienziale, per poi ricollocarla nello scaffale accanto all'antologia della saggezza di quel Levi dove, del tutto eccezionalmente, uomo e libro tesero alla coincidenza.
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