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recensione di Madrignani, C., L'Indice 1997, n. 8
Queste "Lettere a nessuno" sono una "roba" strana. Non perché vorrebbero scandalizzare o sbalordire. Opere di tal genere se ne sono viste in giro fin troppe e in pochi anni hanno stancato e più ancora annoiato. Ma perché sono pagine senza perno; girano così come capita - si potrebbe pensare che non l'autore ma l'editore le abbia messe insieme per una qualche misteriosa ragione non propriamente letteraria (e neppure - direi - commerciale).
Quello che non convince è la volontà ostentatamente decostruzionistica, come se si dichiarasse: non faccio il libro perché so "dire" di più e meglio, mettendo giù, senza intenzioni particolari, quanto mi è capitato. Non costruisco - "dico", ed è più che abbastanza. Insomma un anti-libro che si propone di surclassare ogni ambizione di letterarietà, al di là di ogni mediazione. Al lettore è lasciato poco spazio di manovra: l'effetto, non so quanto voluto, è quello di appiattirlo, schiacciarlo sul piano della pura referenzialità. Scrivere dunque rivolgendosi al lettore a una dimensione, che guarda, anziché leggere.
Una tattica di tanta esasperata angustia risulta, oltre che grigiamente ripetitiva, stancante e snervante. Questo romanzo di un giovane povero, che bussa a tutte le porte, per ottenere udienza dai consiglieri dei principi editoriali, aspira al grottesco, ma ha un sapore di stuccoso ribellismo, da anni sessanta, quando bastava una moto, un blusone e inettitudine mentale per credersi nuovi cristi sulla via del Golgota. C'è poi l'elemento altamente sconvolgente di fare nomi e cognomi (ma non numeri di telefono, graziaddio) e portare turbamento nelle famiglie e nella quiete degli alti studi. Espediente debole e piuttosto isterico, tipico di chi minaccia "ora ci penso io a voi, vil razza dannata". Esisterà un lettore che cada in tale trappoletta per sorci di campagna?
L'altro versante di questo diario senza contorni è una trepida nostalgia di quando si era brutti, scemi e (forse) cattivi. Qui le cose vanno diversamente, meglio oserei dire, certo con minor egotismo e vittimismo. La scrittura è un antistile più maneggiato, che elabora ricordi con tono di calma piatta e stranita. L'emergere del passato si trasforma in un imbambolimento regressivo color antracite, fra depressione e disgusto; forse l'autore vorrebbe si pensasse: chi è mai esistito più infelice di questo povero zotico marxista-leninista-linea-nera (o -rossa)? Il discorso non ha, ovviamente, nulla di politico o culturale: sono le vicende il grado zero di un travet dell'insurrezione che si muove fra ectoplasmi di una sperduta provincia all'estremo della vivibilità. Non sottoproletari o nuovi servi della gleba, ma miserabili costretti (non si capisce da chi) a subire le microangherie di un burocratismo idiotizzante (e qui si avvertono fremiti di umore, naturalmente nero).Scavalcando le intenzioni dell'autore, si potrebbe meditare sul perché certo Sessantotto debba risultare così gretto e vile e come mai quella memoria "politica" fornisca un'immagine di una società irreale, un vuoto d'insensatezza e immondizia. È una forma di rifiuto che si compiace del suo non-essere e non-divenire, oggettivo corollario di quel revisionismo storico che tutto imbratta per tutto salvare?
Non è il caso di analizzare o ipotizzare: il testo presuppone un lettore passivo, svuotato, immerso in un grigiore mentale senza cenni di vita. Così vuole il non-senso di pagine che vanno senza direzione.
Ci troviamo probabilmente di fronte a una pausa postdepressiva di uno scrittore, che ha dato prova di saper "costruire" e tentare una sua difficile via di narrare. È quanto ci (e gli) auguriamo, appellandoci al vecchio adagio del buco e della ciambella.
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