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Vuol dire: dal diario di uno psicanalista - Alberto Schön - copertina
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Vuol dire: dal diario di uno psicanalista
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Vuol dire: dal diario di uno psicanalista - Alberto Schön - copertina

Descrizione


Ecco come l'autore presenta se stesso e il libro: "Sono del 1934, da piccolo ho avuto dei bravi genitori e una sorella. Mi sono sembrati di buona qualità... Ho imparato presto che poteva interessarmi curare la gente... Qui mi propongo di raccontare qualche esempio che serva per riflettere su alcuni speciali momenti dell'esistenza, su certi attimi unici nella relazione tra due persone, che si annusano, si avvicinano, si scambiano qualcosa...
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Dettagli

1997
16 maggio 1997
136 p.
9788833910284

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DaC
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Splendido come il nome! Ciò che maggiormente mi ha colpito è la maestria con cui A.S. coniuga l'ascolto della narrazione con l'osservazione attenta della mimica facciale, della gestualità e della postura, con il saggiare l'atmosfera, valorizzando il vissuto nella sua totalità. Mi cattura poi quella delicata ironia per la quale tutto può essere detto, giocato, rivissuto e ripensato in forme nuove e creative. La narrazione accompagna il lettore direttamente dentro la scena come un osservatore partecipe. Quando ho riposto il libro nella libreria ho notato di averlo messo giusto a fianco al testo sull'ironia di Giorgio Sacerdoti, come volessi farne un libro solo, completo di teoria e vignette di studio. Prescrizione d'uso: da leggere tutto d'un fiato, è possibile consultarlo anche dopo le 18:30 senza incorrere in spiacevoli abbiocchi, non reca disturbo nelle ore notturne. Buona lettura! :)

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Voce della critica


recensione di Speziale-Bagliacca, R., L'Indice 1997, n.10

Di tanto in tanto, durante tutta la lettura di queste pagine, mi veniva da pensare: delizioso. Un po' me ne dispiaceva perché negli ultimi decenni questo aggettivo è stato snaturato e ha finito con l'imparentarsi con superficiale e lezioso. E questo "Vuol dire "di Alberto Schön tutto sarà fuorché lezioso. Invece è delizioso perché delicato, ricercato e con una sua eleganza. Benché venga dalla "campagna", ma di questo dirò dopo.
Il volume contiene decine di brevi aneddoti e vicende (alcuni non raggiungono la pagina), incontri e riflessioni con pazienti visitati in veste di medico, di neurologo, oltre che di psicoanalista; ma la scena è animata non solo dai malati, dai loro parenti, ma anche da colleghi, infermieri e suore; il tema di volta in volta svolto può riguardare problemi specifici così come momenti di vita quotidiana.
Alberto Schön, che è padovano, scrive sul filo sottile d'uno spartiacque che ricorda le sonate di Mozart interpretate da Claudio Arrau. Su uno dei due lati dello spartiacque lungo il quale le storie di Schön si sviluppano ci potrebbe essere il cattivo gusto, lo spirito goliardico.
Faccio subito due esempi di questa leggerezza: uno lo prendo dall'avvertenza che precede il libro: "Vorrei tanto poter ringraziare la segretaria, ma non l'ho mai avuta". Riportata così, la frase rischia di perdere tutta la sua carica, ma immaginatela spuntare inattesa in un normale testo di ringraziamenti, e magari siete tra quelli che hanno più volte cercato la formula per ringraziare la segretaria per il suo contributo al libro appena terminato. Le frasi di Schön spiazzano e spiazzando evocano: con delle innocue provocazioni riesce a rompere i circuiti abitudinari delle nostre pigrizie di lettori.
L'altro esempio è tratto dalla dedica dell'intero libro: "Ai miei maestri, ai pazienti me compreso...". Qui l'ammissione, oltre a divertire per come è congegnata, è più compromettente: con due parole ci dice con chi abbiamo a che fare, qual è la "filosofia" di questo medico, di questo psicoanalista. Si potrebbe ricavarne molto: Schön non solo si pone sullo stesso piano dei suoi pazienti, ma esprime riconoscenza verso la parte di sé che soffre, che chiede aiuto (che è poi la parte che permette di comprendere e curare). È questa misura ciò che fa poi scattare il sorriso, quando non il divertimento pieno. Personalmente, leggendo queste pagine, mi sento pervaso di "fiacheta", che il veneziano Antonio Alberto Semi ci spiega che "non è la calma e neppure la fiacca, ma una particolare disposizione d'animo che evita atteggiamenti impulsivi e mitiga con una ferma - si noti - dolcezza la propria disposizione all'azione" (in "Venezia in fumo 1797-1997", Cortina, 1997).
"Marta, o della sessualità infantile"; "Elsa "che voleva solo una visita"";" Alfredo, la cefalea"; il ritratto di Basaglia prima che diventasse famoso; Carmela, la bella siciliana che tiene il pugno destro costantemente serrato al punto che le unghie le sono cresciute nel palmo, sono alcune delle storie. Lo stile è per lo più questo: "Titolo: "Colloquio diagnostico orientativo". Era entrata con un tremito tra il collo e lo sguardo, tanto che l'avevo accolta con un 'Buon giorno. Cos'è che le fa paura?' 'Io ho sempre paura' 'Può sedere lì e mettere sul letto quello che non le serve', dissi, indicando la solita sedia. Le si dipinse un dubbio che riuscì a esprimere: 'Mi devo mettere sul letto?' Orpo, pensai, ben messi siamo". Dove quell'"orpo" contribuisce a fornire la tonalità con cui Schön compone. Traspare un'antica educazione e rivela la filigrana di bonomia, la dimensione familiare. Quel "siamo ben messi "registra il contatto; fa dell'ironia e allo stesso tempo non la fa: sono "realmente" ben messi se sono riusciti a comunicare così profondamente in così breve tempo. Il medico s'è già calato nella stessa barca della paziente.
Poi viene la capacità ad accogliere e sdrammatizzare i conflitti dell'altro che si pone a un livello di complessità e di professionalità più alto. Parlando di altri pazienti, scrive: "Elena aveva fatto conoscenza con Luisa, altra mia paziente. Coetanee, dopo qualche sorriso per il fatto di indovinarsi pazienti dello stesso dottore, avevano stretto un innocuo sodalizio centrato sul dire male dell'analista, per poi salvarlo. Ciascuna mi aveva regolarmente parlato in seduta di questa gentile rottura della consueta riservatezza. Un giorno aspettavo Elena e vidi giungere Luisa. Al primo momento non la riconobbi, perché avevo fatto posto nella mente per l'altra. Luisa disse 'Elena aveva un impegno importante e io non avrei potuto venire alla mia prossima seduta, allora ci siamo scambiate, e Elena verrà alla mia ora. Non c'è niente di male, vero?' Pensai a cosa avrebbero detto alcuni analisti più anziani, circa il farsi manipolare, i tentativi di rompere il setting e la corrispondente neutralità dell'analista. Non mi fecero impressione. Terminata l'analisi, dopo i necessari chiarimenti sulle rispettive identità, compresa la mia, non si incontrarono più".
Donald Winnicott nel 1968 scrisse in "L'uso d'un oggetto" cosa intende per capacità di utilizzare gli altri e quindi anche il proprio analista. Parlare della nostra capacità di "usare un oggetto" implica qualcosa di più sofisticato del semplice essere in rapporto con lui, presuppone che si prenda in considerazione, in una interazione concreta, la natura stessa di una persona che vive nel mondo esterno. Per poter usare un altro costruttivamente, occorre che questi "non si sia lasciato distruggere" dalla nostra aggressività. Solo se avrà superato questo "esame" potrà venire investito d'amore. È da quel momento che possiamo dire: "Hai valore per me perché sei sopravvissuto al mio attacco". La capacità di usare l'altro presuppone anche che si prenda in considerazione "la natura stessa" di una persona: ma la natura di Alberto Schön è fatta anche di capacità di sdrammatizzare e di senso dello humour. Elena e Luisa stavano facendo i loro tentativi per utilizzarlo.
Man mano che si procede, ci si rende dunque conto che questa lievità di Schön ha uno spessore clinico e umano. Ma questo spessore lui non lo esibisce, lascia che sia l'altro a scoprirlo; a un certo punto scrive: "Il problema, nell'assistenza psichiatrica, è che se curi uno che non vuole, il che è la regola nei malati psichiatrici che non si sentono male, è violenza privata; se però non curi chi ha bisogno, è omissione di soccorso". Frase buttata lì con noncuranza, eppure si potrebbe scrivere un saggio di cento pagine per confermarla. Apriamo una breve parentesi: questo paradosso deriva da quelle che gli psichiatri di Palo Alto hanno chiamato comunicazioni "doppio legame" ("double bind"). In cosa consiste questo tipo di paradosso? Si è tentato di identificare i caratteri principali del doppio legame: il messaggio a) afferma qualcosa, b) contiene una seconda affermazione alla prima connessa, c) le due asserzioni si escludono a vicenda. Infine d) chi riceve il messaggio si trova "nell'impossibilità di uscire "dalla situazione emotiva in cui si è venuto a trovare, vuoi commentando il messaggio, vuoi ignorandolo, vuoi chiudendosi in se stesso. In sostanza uno si trova di fronte a un complesso tipo di trappola: da qui la metafora del doppio legame. Ma le istituzioni sono intrise di comunicazioni doppio legame; c'è chi dice che "si reggano "sul doppio legame.
Schön conosce la spontaneità. "La spontaneità di cui parlo - disse un giorno il violinista Gidon Kremer - nasce anche dal sapere, ma quando il sapere è stato dimenticato. Interpretazione come perenne infanzia della musica. Se l'infanzia è il luogo dove tutto accade per la prima volta". Questo ci porta a un quesito che percorre tutta l'ultima parte del diario. Perché Schön non termina il libro alla fine delle sue storie, lasciando, come fa il poeta, l'artista, che sia il lettore a cogliere le risonanze che la sua sensibilità e la sua cultura gli permettono? "In origine volevo solo comunicare eventi e non ragionare sul senso delle vicende narrate, poi mi sono convinto che un analista deve tentare di indicare e discutere le teorie nascoste dietro i racconti, per capire cosa ha fatto, cosa è accaduto". E aggiunge 19 pagine. Gli si potrebbe chiedere: e chi l'ha detto? Ma Schön ci anticipa in qualche modo la risposta: sembra sia stato Antonio Alberto Semi (autore anche della postfazione di questo libro), "amico con tutte le necessarie affinità e differenze, lettore acuto, critico colto, fornito anche di zoom sul preconscio e di conseguenza grande rompiscatole". Mi viene da commentare che forse Semi predica in un modo e poi razzola in un altro (invito esplicito a leggere e a gustare il libro suo che ho prima citato, dove tutto è sapientemente mischiato), per cui "me xe vegnuo un dubio". Che abbia giocato, nel rompiscatole, anche il desiderio che l'amico non facesse brutta figura? Ci sono antichi radicati pregiudizi dei veneziani sui veneti che suggeriscono che questa ipotesi non è del tutto peregrina.
Semi, nell'appena menzionato suo libro, cita "en passant" la "campagna". Contraddicendo le borghesi smanie per la villeggiatura di goldoniana memoria, un'amica d'antica stirpe veneziana mi ha spiegato a cosa alluda questo termine in bocca a uno di Venezia: sua nonna, in partenza per il soggiorno invernale, quando seguiva la preparazione dei bauli, sollecitava la domestica a scegliere tra i cappelli e i vestiti del guardaroba quanto c'era di più semplice e magari fuori moda: "Quei capelini che va ben in campagna". E la campagna poteva essere Roma, Cannes o Vienna. Ora Semi "xe venezian*, mentre Schön "xe veneto": il dubbio che mi ha sfiorato (e che non ho risolto) è che il veneziano abbia temuto, in uno slancio di apprensione protettiva, che le pagine dell'amico padovano, essendo incontrovertibilmente opera "de uno de campagna", potessero avere un destino non all'altezza dei loro meriti.

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