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(recensione pubblicata per l'edizione del 1989)
recensione di Sozzi, L., L'Indice 1989, n. 3
L'attimo, certi attimi, hanno una loro sacralità, sia che schiudano abbaglianti spiragli su divine parvenze, sia che conducano su buie e scoscese voragini infernali. "Scendere in fondo all'abisso, inferno o cielo, che importa?": Baudelaire avvertiva l'ambiguità degli istanti. Forse trae origine dall'esperienza surrealista, cui s'intrecciano per altro frequentazioni molteplici, religiose ed etnologiche, patristiche ed ermetiche, la sensibilità di Roger Caillois - una figura che sempre più distintamente grandeggia sull'orizzonte culturale del Novecento - al tema della dimensione temporale singolare e "diversa", di un tempo che non è solo l'amorfo contenitore delle opache vicende di ogni giorno, ma assume d'un tratto misteriose connotazioni e quasi drammaticamente s'impone nella sua assoluta e ambivalente significanza.
Nel saggio "Vertigini", ad esempio, uscito a Città del Messico nel 1943 e raccolto poi nel volume "Istinti e società", il momento della vertigine è descritto come quello in cui tace l'istinto di conservazione e l'essere, trascinato verso la propria rovina, tuttavia non sa resistere all'oscuro richiamo di un misterioso abisso, è complice del proprio annullamento e si abbandona con morboso piacere alle forze tenebrose che gli impongono abdicazione e rinunzia. È implicita in quel saggio l'idea di un'ambiguità, di un sovrapporsi senza residui di atteggiamenti in apparenza antitetici come il desiderio e la paura (reazioni cui Rudolf Otto riconduceva appunto la presenza del "numinoso"), l'estasi sublime e la morte, idea che parallelamente lo scrittore aveva svolto o veniva svolgendo nei suoi libri più famosi come "L'uomo e il sacro" e "Il mito e l'uomo", e che più tardi si risolverà nelle linee direttive di altri saggi notissimi, come "Nel cruore del fantastico": qui il fantastico è anch'esso liberato e disgiunto dai singoli oggetti dell'invenzione immaginativa, ed al contrario coincide con una condizione di vuoto, con una sorta di incanto dovuto all'aura misteriosa che circonda un'assenza.
Oggi, grazie a questa edizione dei "Demoni meridiani" splendidamente curata da Carlo Ossola, un'edizione che fornisce con ricco apparato di note il testo della tesi discussa da Caillois nel '36 all'Ecole Pratique des Hautes Etudes ed apparsa, quell'anno e l'anno dopo, in un paio di riviste, ma mai sinora ristampata in volume, scopriamo che ad alcune delle idee più a lungo frequentate, Caillois era giunto, poco più che ventenne, appunto in quegli anni, studiando sotto la direzione del Dumézil un patrimonio mitico di straordinaria pregnanza e bellezza.
I "demoni" di cui si parla in questo libro sono quelli che appaiono nell'ora meridiana, che suscitano stupore e spavento e distruggono la pace dell'anima. "Meridies": un'ora ambigua, l'ora immobile di cui parla Platone nel Fedro, la "contr'ora" di cui ancora si parla nelle nostre terre meridionali. Nella sua torrida immobilità essa significa, appunto, estasi e smarrimento, rapimento e follia. Partendo dal noto versetto 6 del Salmo 91 ("Non temerai l'irruzione del demone meridiano"), Caillois con prodigiosa erudizione, raccoglie le testimonianze più diverse, antiche e medievali, cristiane e pagane, presenti nel folklore ed elaborate da testi letterari. Il 'topos' diventerà corrente nella poesia parnassiana, sarà banalizzato da un romanzo di Paul Bourget, ispirerà scrittori d'ogni paese d'Europa, troverà in Valéry una fulgida ripresa. In Italia, D'Annunzio vedrà nel meriggio la vira e la morte: "...il mio nome / è Meriggio. In tutto io vivo / tacito come la Morte. / E la mia vita è divina", e Montale, anch'egli, conoscerà lo stupore dell'assorto meriggiare, glorioso trionfo di luce - "Gloria del disteso mezzogiorno, / Quand'ombra non rendono gli alberi" - e tuttavia "ora di disagio", momento d'ansia se nella sonnolenza del meriggio un'immobile statua ci disvela la divina indifferenza. "Meridies": un'ora rischiosa, un critico momento di passaggio. Percorsa la prima metà del suo cammino, il sole è allo zenith e in breve declinerà. Nessun corpo, inoltre, proietta più la sua ombra, quasi che il sole la faccia svaporare, cioè assorba e vanifichi l'anima, di cui l'ombra in certo modo è la traccia.
Ma il meriggio è soprattutto l'ora delle seduzioni e dell'incanto, della contemplazione e del disfacimento. Tale duplicità, ancora una volta, è resa da immagini mitiche pregnanti: è nell'ora meridiana, appunto, che le Sirene (da Seìros, l'astro solare) fanno udire il loro canto, insieme invitante e oscuramente ammaliante, e i Lotofagi praticano le loro incantagioni, le cicale friniscono fino a stordire, invito all'inerzia ed al sonno. È sempre a mezzogiorno che in prossimità di fontane o ruscelli appaiono Pan e le ninfe come narrano Teocrito e Platone, e Tiresia, come racconta Callimaco, scopre Pallade al bagno (sarà punito con la cecità) e Atteone, come Ovidio ricorda, scopre Artemide (sarà mutato in un cervo e straziato dai cani). È l'ora degli incubi, dei fantasmi portatori di tentazioni lussuriose e di smanie erotiche. Non basta ridurne i mitici pericoli alla loro dimensione più concreta, liberandoli dei loro aloni fantasiosi per vedervi la trascrizione, semplicemente, dei rischi d'insolazione, con la loro coorte di paralisi, afonia e follia: così non si intendono le connotazioni che il mito ha assunto nel corso dei secoli, specie passando dall'oggettività del mondo antico alle più sottili risonanze della visione medievale e cristiana.
Dai commenti dei Padri al versetto biblico come da un diffuso e molteplice patrimonio leggendario emerge il profilo inquietante del demone meridiano come immagine che appare ossessiva al monaco e all'anacoreta, tentatrice dei santi nel deserto, portatrice di acedia, in termini moderni potremmo dire di depressione psicastenica, di una malinconia che è avvertita come colpevole in quanto si risolve in abbandono, defezione, rovina. Si sa che la malinconia ha diversi volti: ha quello soave, che solcano confortevoli lacrime, ha quello eroico, portatore di sublimi messaggi, ed ha quello tetro ed amaro di chi scopre la vanità di ogni cosa. Lo studio della mitologia, si legge in "Il mito e l'uomo", è "un procedimento di prospezione psicologica". Il demone meridiano appare all'anima contemplativa, penetra nella sua interiorità, la sugge e devasta: è appunto come il sole alle zenith, che prosciuga ed uccide. Ma la passività dell'acedia, dice bene Ossola, si accompagna a una volontà panica di immortalità. Il monaco, il santo, l'anima solitaria, si abbandonano morbosamente al suo languore, al suo fascino, forse oscuramente sperando che la rinunzia e l'abdicazione garantiscano su altri piani e per altre vie una qualche mercede, un gratificante risarcimento.
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