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Libro interessantissimo e nonostante la semplicità della scittura non è mai scontato.E'pieno di stimolanti riflessioni.
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Il titolo è di quelli che allettano: ci dice che in questo oscuro momento della scuola, dell'informazione e dell'industria culturale italiane si accende una luce, una brevis lux che però testimonia che non tutto è perduto. A questa aspettativa corrisponde in maniera abbastanza coerente la tesi di fondo del saggio: non stiamo vivendo, vi si afferma, il tramonto della cultura, ma una fase in cui sta mutando il rapporto tra una concezione elitaria della cultura e l'insieme sociale. Nel corso dell'ultimo secolo, di fronte alle trasformazioni della società di massa, nuova destinataria della comunicazione, il sapere "alto" e l'arte si sono rinchiusi nelle loro roccaforti sempre più esclusive e il mondo intellettuale nel suo insieme ha assunto un atteggiamento di rifiuto e di irrisione (e quindi spesso di incomprensione) nei confronti dei consumi culturali della "gente", cioè di coloro che si appassionano ai programmi televisivi, leggono "Chi" e altra stampa del genere, esercitano la propria mente magari solo attraverso i videogame.
Brevini sollecita più attenzione verso questo vasto mondo, specialmente verso i giovani, sensibili anche se non sentono più rappresentati i propri sentimenti dai versi di Pavese o Prevert, ma "dalle filastrocche cadenzate del rap e dell'hip-hop". C'è un mondo che finisce, afferma l'autore, e si porta via gli aspetti più canonici della scuola e della cultura: può dispiacere, ma tale fatto apre la strada a ciò che sta per cominciare o che si è appena avviato negli ultimi anni.
Fin qui la tesi dell'autore, non particolarmente originale, però senza dubbio condivisibile; ma proprio a questo punto, quando dovrebbe cominciare l'approfondimento, si arresta la riflessione di Brevini. Soprattutto nei capitoli che riguardano l'insegnamento e la formazione prevale una visione statica della cultura: sembra che esistano solo due schieramenti contrapposti, da un lato i difensori a oltranza di ciò che appartiene alla tradizione, dall'altro chi sostiene senza riserve tutto ciò che è premiato dal successo e dalla diffusione. Se le cose stessero veramente così, la scuola potrebbe solo ratificare il proprio fallimento; infatti nel quadro di Brevini non c'è spazio per chi, in un mondo zeppo di informazioni diffuse a grande velocità e senza nessuna verificabilità, si assume il compito di insegnare, a qualsiasi livello, a ragionare attraverso domande relative a tutto ciò che si fa, si apprende e ci circonda, usando il "perché?" come strumento critico e non come accettazione passiva (è così perché è così) del passato e del presente.
Formare a muoversi attraverso i confini tra le tante forme di organizzazione del pensiero e dell'agire, non a rinchiudersi nel proprio territorio, come chi è convinto che i confini siano muri di separazione al di là dei quali si perde la propria "identità", educare a porre domande a se stessi e al complesso mondo in cui si vive: questo è oggi più che mai la funzione alta e necessaria della scuola e dell'università, proprio per sfuggire a quella "riduzione scolasticistica di ogni forma di istruzione e di formazione" che l'autore critica, ed essere capaci di muoversi con crescente libertà tra gli infiniti stimoli formativi oggi presenti. Dare questo fine alla formazione è essenziale per non passare senza accorgersi dall'accettazione subita dell'Iliade del Monti all'accettazione altrettanto subita (la pubblicità, come è noto, non produce molta libertà e spontaneità...) della televisione del Grande fratello.
Su questi aspetti ci si poteva attendere una maggiore chiarezza da parte dell'autore. Ma forse il saggio sconta una scelta di metodo che a me sembra poco produttiva: Brevini fonda la sua ricerca sull'esperienza personale del "disagio in cui anch'io come molti mi dibatto". Tale opzione genera un autobiografismo minuto di dubbia utilità, talvolta un po' irritante (perché dedicare interi capoversi ai viaggi in autostrada, alla carriera scolastica dei figli, a proprie vicende personali, alle abitazioni dei colleghi? Mah...) e soprattutto dispersivo. Nella successione affannosa dei riferimenti quotidiani tutto si appiattisce: l'obiettivo "di infrangere almeno per un momento gli steccati dello specialismo" è forse encomiabile, ma lo scivolamento verso l'impalpabile genericità del senso comune avrebbe potuto essere evitato.
Vincenzo Viola
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