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C'è una frase di Baudelaire fattasi con il tempo quasi uno slogan per Antonio Prete: "La critique doit être partiale, passionnée, politique, c'est-à-dire faite à un point de vue exclusif, mais au point de vue qui ouvre le plus d'horizons". Uno slogan all'insegna della libertà ermeneutica del soggetto: adottato ai tempi di rigori metodologici e ideologici che oggi ci appaiono reperti archeologici (e che certe volte viene voglia di tirar fuori dall'armadio: quando ogni libertà appare corrotta in licenza). Ora il sintagma chiave è l'ultimo: apertura di orizzonti. Questo nuovo Trattato della lontananza inalbera un titolo che è dato sospettare ironico, un po' alla maniera del vecchio Eugenio D'Ors di Oceanografia del tedio: appellandosi all'impossibile rigore espositivo – nella forma principe del pensiero organico, il trattato appunto – riguardo alla più sfuggente, alla più incircoscrivibile delle materie. Attraversando principalmente la letteratura ma anche la filosofia e, ora, l'arte (nella suggestiva galleria che funge da baricentro del libro, con ekphrasis di Leonardo, Mantegna, Giorgione, Goya, Friedrich ecc.; un biancazzurrante Friedrich 1818 figura in copertina) non si riesce a immaginare un pensiero più di quello di Prete lontano, è il caso di dire, dal feticcio dell'organicità.
Il pensiero poetante era il titolo, nel 1980, del primo suo successo saggistico (un saggio leopardiano che, dopo gli anatemi idealisti, prendeva sul serio l'antipoetico – e quanto mai antiorganico – Zibaldone come chiave di lettura filosofica dei poeticissimi Canti): insegna cui è rimasto legato il suo nome. Un'insegna in esplicito debito con l'ermeneutica di Heidegger prossima a farsi koinè di tanto lessico intellettuale anni ottanta: l'Heidegger delle letture di Hölderlin e Rilke (due poeti che tornano, né poteva darsi il contrario, anche in questo Trattato) che hanno salato il sangue più ai critici letterari che ai filosofi di professione (come proprio il caso in oggetto sta a emblematicamente dimostrare). Anche qui torna a giorno la medesima matrice (il tema dell'aperto, caro altresì a un condiscepolo così diverso come Giorgio Agamben; la parafrasi scoperta di quello che di Heidegger è uno dei titoli più famosi: "Abitare la terra è un fatto poetico, cioè di linguaggio"); manca però quasi del tutto, del filosofo, la citazione esplicita. Da un lato, appunto, perché certi nessi di pensiero si sono fatti, ormai, quasi seconda natura del nostro paesaggio intellettuale; molto di più, direi, perché con il tempo Prete ha con discrezione provveduto a prendere le sue distanze da un formulario concettuale che, nelle mani di una pletora di stenterelli, s'è fatto ron-ron disimpegnante – quando non autocaricaturale.
Mentre per "costellazione" tematica si ricollega a Nostalgia. Storia di un sentimento (Raffaello Cortina, 1992) questo Trattato della lontananza, sin dal titolo come detto quasi ossimorico, pare riprendere il filo di Prosodia della natura (Feltrinelli, 1993): anche qui la forma adibita è la più squisitamente "antitrattatistica", quella del frammento; anche qui la sigla prescelta consente di accostare, e lampeggiando congiungere, temi in realtà "lontani" o almeno sin qui oggetto di tradizioni interpretative tra loro distanti (dall'esilio – "non è un tema, e spesso non è neppure una condizione del poeta. È quel che unisce l'esistenza alla lingua" – all'amor de lonh dei poeti provenzali ovvio punto di partenza, dall'immaginario cosmologico e astrale – la vexata etimologia di "desiderio" – all'assunzione in prima persona del compito del traduttore – anche la traduzione è "rammemorazione nella lontananza" – sino alle pagine forse più ispirate, quelle sull'orizzonte appunto: "linea della lontananza" e "presenza dell'altrove", "oltre di noi stessi").
Anche qui, soprattutto, il pericolo insito nelle pratiche di lettura di Prete – una qualche pretesa di dar del tu all'assoluto, la volontà di commerciare con l'ineffabile, di piétiner sur la place quanto mai sdrucciolevole del Sublime –, il pericolo insomma di fare del proprio discorso qualcosa di sin troppo simile all'evocata "patria di nuvole" del romantico Jean Paul, viene dall'autore lucidamente combattuto facendo ricorso alle coordinate "fisiche" del tema prescelto, ai suoi indizi terrestri insomma: "Il lontano non è un'entità astratta, un luogo da opporre al vicino, ma è costituito da gradazioni di distanza, e ha relazioni con la luce e l'ombra". Frasi, queste, dedicate a una figura per antonomasia concreta come Leonardo (un altro eroe concettuale del libro, non per caso, è Galileo). Ma che devono soprattutto alla "geografia dell'immaginario" di un phare per Prete relativamente nuovo, l'Yves Bonnefoy dell'Entroterra (L'arrière-pays, tradotto da Donzelli nel 2004). La proiezione cartografica – e dunque sempre in qualche modo ordinata (sia pure secondo logiche autoistituite) – di quel territorio immateriale che è la nostra sfera sentimentale, è tentazione che seduce più di un saggista fra quelli di punta, oggi: forse proprio per combattere gli eccessi di una diluizione metodologica che s'è fatta, da ultimo, euforica deregulation. Il che, naturalmente, non ci deve far precipitare negli opposti eccessi di un positivismo di ritorno che, pure, non manca di aduggiare il nostro tempo. Ne fa fede il capitolo di Prete sulla "Cartografia fantastica", con il bell'excursus sulle popolazioni fantastiche e le loro antropologie immaginarie: da Montaigne e Swift sino a Henri Michaux e al nostro Gianni Celati.
Si capisce che, alle prese con un libro del genere, le citazioni e i rinvii potrebbero moltiplicarsi all'infinito, in un diletto non si sa quanto mutuabile dal lettore. Preme concludere, invece, su una nota che non stupisce chi conosca l'uomo Prete ma suona relativamente nuova a chi abbia seguito solo il suo percorso di scrittura: cioè la valenza "civile" di una simile meditazione nel tempo in cui "la tecnica oggi trionfante" (altro ovvio spunto heideggeriano) è tutta all'insegna dell'eliminazione della distanza e, dunque, dell'appiattimento della differenza: "L'avverbio greco tele – lontano – (…) va a comporre gli elementi e gli strumenti della tecnica contemporanea. Telefono, televisione, telematica. Tutto quel che è lontano (…) viene oggi verso di noi, bruciando il tempo e lo spazio della lontananza. Si fa contemporaneo".
Diceva René Char (nella traduzione splendida di Sereni): "Sopprimere la lontananza uccide. Non di altro gli dèi muoiono che dello stare in mezzo a noi". Non mi pare alberghi nostalgie spiritualiste, Prete; sì invece, e mai come oggi così esplicita, una tentazione escapista, magari nella declinazione gnosticheggiante di certo Leopardi: la lontananza da salvaguardare è quella "da un tempo presente nel quale regnano l'affanno, la privazione, l'ingiustizia. Lontananza da questo povero mondo" ("l'aiuola che ci fa tanto feroci" di un improvviso, bellissimo, excursus dantesco). Perché i poeti nel tempo della povertà, insomma: ancora una volta.
Ma c'è un'altra e più immediata valenza, per il Prete di oggi, nella figura chiave dell'orizzonte. Se esistesse una giurisprudenza dell'immaginario come ce n'è – lo si è visto – una cartografia e un'antropologia, andrebbe sancito un "diritto all'orizzonte" che è il "diritto a muovere il proprio sguardo oltre le recinzioni", ora che la guerra contemporanea riscopre la figura-simbolo del muro: "Fare del confine non una linea geografica ma una delimitazione visibile, impediente, è imporre una recinzione, è dichiarare materialmente la diffidenza e l'estraneità come forme primarie delle relazioni tra i popoli". Un'etica della lontananza è anzitutto, ancora una volta leopardianamente, una consapevolezza della relatività delle nostre istituzioni e dei nostri conflitti. Lontani, una buona volta, dall'aiuola feroce, dal giardino della sofferenza. Un sogno, certo. Ma è da più di un secolo che abbiamo imparato come interpretarli, i sogni, sia pratica tutt'altro che ineffettuale.
Andrea Cortellessa
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