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Mary e il gigante
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Mary e il gigante - Philip K. Dick - copertina
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Mary e il gigante

Descrizione


Cronaca di vita e d'amore ambientata in una cittadina della California degli anni Cinquanta, "Mary e il gigante" racconta la storia di Mary Anne Reynolds, una giovane donna dal carattere sensibile e intenso, e delle sue difficoltà affettive e relazionali. I suoi uomini, prima un cantante nero, poi il proprietario di un negozio di dischi più anziano di quarant'anni, accompagnano Mary lungo un itinerario di consapevolezza e disperazione che rivela in controluce un complesso panorama emotivo e culturale, quello di un decennio entrato nell'immaginario collettivo in modo anomalo e spesso falsato, e che oggi è al centro di una forte rilettura. Gli anni Cinquanta descritti da Dick sono un momento oscuro della Storia, segnato da una sorta di barbarie civile, in cui un senso diffuso di sgomento (è l'epoca dell'espansione del nucleare e della guerra fredda) si accompagna all'intolleranza verso il prossimo, alla diffidenza e all'incomprensione. Introduzione di Carlo Pagetti. Postfazione di Tommaso Pincio.
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Dettagli

2012
Tascabile
263 p., Brossura
9788834718537
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Indice


Le prime frasi del romanzo:

Alla destra dell'auto in corsa, oltre il ciglio dell'autostrada, sostava un gruppo di vacche. Poco più in là ce n'erano altre, sagome marroni mezze nascoste dall'ombra di un granaio. A lato del granaio si scorgeva vagamente una vecchia insegna della Coca-Cola.
Joseph Schilling, seduto sul retro, infilò la mano nel taschino e tirò fuori il suo orologio d'oro. Con un movimento esperto dell'unghia lo aprì e guardò l'ora. Erano le due e quaranta del pomeriggio, di un caldo pomeriggio californiano di piena estate.
"Quanto manca ancora?" domandò con un moto d'insofferenza. Non ne poteva più di stare in macchina e di quello scorrere di terreni coltivati fuori dei finestrini.
Piegato sul volante, Max grugnì senza girare la testa. "Dieci minuti, forse quindici."
"Sai di che sto parlando?"
"Di quella città che hai segnato sulla mappa. È a dieci o quindici minuti da qui. Ho visto un cartello più indietro. All'ultimo ponte."
Comparvero altre vacche, e con loro altri aridi campi. Nel corso delle ultime ore la lontana foschia delle montagne era gradualmente scesa a valle. Dovunque volgesse lo sguardo, Joseph Schilling vedeva la foschia distendersi monotona, oscurando le colline arse dal sole, i pascoli, i frutteti di varie specie, le costruzioni dipinte di bianco delle fattorie. E, a breve distanza, le avvisaglie di un centro abitato: due tabelloni pubblicitari e una bancarella di uova fresche. Il profilarsi della città lo mise di buon umore.
"Non ci siamo mai passati da queste parti, vero?"
"Il posto più vicino in cui siamo arrivati è Los Gatos. È stato nel '49, ti eri preso una vacanza."
"Non si può fare niente più di una volta" disse Schilling. "Le cose si rinnovano sempre. Come diceva Eraclito, non è mai lo stesso fiume."
"A me sembra tutto uguale. Solo campi e fattorie" Max indicò un gregge ammassato sotto una quercia. "Ancora pecore... è tutto il giorno che vediamo pecore."
Dalla tasca interna della giacca Schilling tirò fuori un quaderno rivestito in pelle, una penna stilografica e una mappa ripiegata della California. Era un uomo grosso che aveva passato da un bel po' la cinquantina. Le mani che stringevano la mappa erano gialle e massicce, la pelle ruvida, le dita nodose, le unghie spesse al limite dell'opacità. Portava una giacca di tweed con gilet e cravatta scura di lana; le scarpe in pelle nera erano di fattura inglese e il viaggio le aveva sporcate di polvere.
"Sì, ci fermeremo" decise, mettendo via quaderno e penna. "Voglio passare un'ora a dare un'occhiata in giro. C'è sempre la possibilità che sia il posto adatto. Che te ne pare?"
"Perfetto."
"Com'è che si chiama la città?"
"Paso Buco."
Schilling sorrise. "Non fare il buffone."
"Hai la mappa, guarda." Con un tono acido, Max ammise: "Pacific Park. Nel cuore della ricca California. Solo due giorni di pioggia all'anno. Vi cresce una specie particolare di calendula."
La città vera e propria andò delineandosi su entrambi i lati dell'autostrada. Bancarelle di frutta, una pompa di benzina della Standard, un'isolata drogheria con delle auto parcheggiate nello sporco spiazzo di terra adiacente al negozio. Dall'autostrada partivano strade strette e dissestate. Mentre la Dodge rallentava accostandosi sulla prima corsia, si intravidero anche delle case.
"E questa la chiamano città" disse Max. Fece scendere di giri il motore e sterzò a destra. "Qui? Laggiù? Deciditi."
"Verso la zona commerciale."
La zona commerciale era divisa in due. Una parte, orientata verso l'autostrada e il traffico di passaggio, sembrava costituita essenzialmente da drive-in, stazioni di servizio e locali per automobilisti. La seconda parte era il cuore della città; fu lì che si diresse la Dodge. Il braccio poggiato sul finestrino aperto, lo sguardo attento e assorto, Joseph Schilling osservava il paesaggio. Si sentiva appagato dalla presenza di gente e negozi e dall'aver temporaneamente lasciato l'aperta campagna.

Valutazioni e recensioni

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alvin
Recensioni: 3/5
Un po’ faticoso

Devo ammettere di aver letto libri migliori di questo grande Autore, con la A maiuscola. Tuttavia anche il breve racconto in esame è pieno di spunti di riflessione che ancora oggi danno da pensare e meravigliano per la loro attualità. E’ una lettura impegnativa e non rilassante, ma forse lo è stato per me.

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EC
Recensioni: 3/5
Non solo fantascienza

Con una scrittura asciutta e tesa, tersa e precisa, Philip Dick ci porta nella California dei primi anni ’50. In una tranquilla cittadina di provincia vive Mary Anne Raynolds, inquieta ed enigmatica, insicura e ansiosa protagonista femminile. Appena ventenne, Mary Anne affronta con intensità ogni decisione e ogni incontro, oscillando tra stati d’animo diversi e cambiando direzione ogni qualvolta ne senta la necessità. Pur essendo vittima, non agisce mai come tale, non si lascia condizionare dai pregiudizi, neppure quelli razziali e, sul finale, ha il suo lieto fine, la sua pacificazione come donna e come persona.

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Sarah
Recensioni: 4/5
Bello

Non tra i migliori di Dick, ma comunque interessante.

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La recensione di IBS


Una generazione di giovani insolitamente maturi, in qualche modo più adulti di quanto lui trovasse ragionevole. Schietti, senza pietà, non riuscivano a rispettare niente e nessuno... in cerca di qualcosa di abbastanza reale in cui credere: in cerca di qualcosa degno del loro rispetto.

Questo romanzo giovanile di Dick, scritto negli anni Cinquanta, ha vissuto parecchie traversie prima di essere pubblicato. Eppure rappresenta, alla luce di tutta la produzione successiva, un importante anello della evoluzione stilistica e tematica di questo scrittore. Pur essendo considerato un autore di culto nell'ambito della fantascienza (per lo meno di una particolare tipologia di fantascienza molto problematica e prevalentemente pessimista), Dick si è sperimentato anche in alcuni romanzi fuori dal genere e tra i primi appare appunto Mary e il gigante.

Già dal titolo è evidente il carattere fiabesco e paradigmatico dei personaggi: Mary è la fanciulla, Biancaneve, l'eroina che viene messa alla prova; il gigante è il tentatore, l'uomo (anche quello piccolo e magro), il seduttore, l'antagonista. Così nell'economia del racconto la "ragazza dai capelli neri", che rimarrà nelle fantasie di Dick come simbolo della femminilità, appare il filo conduttore di una narrazione che centra l'interesse sull'America degli anni Cinquanta, perbenista e malsana, gretta e corrotta, che non dà spazio alla speranza (il lieto fine, corretto dall'autore rispetto alla prima stesura, è quasi giustapposto e denso di una ironia amara che sfocia nel grottesco) e che, purtroppo, sotto molti aspetti rispecchia il momento attuale, di riflusso, più che gli ultimi decenni del secolo Ventesimo. Mary è una ragazza che vaga da una situazione all'altra, senza radici e, pur nella sua ingenua seduttività, prigioniera di un desiderio di affetto e di protezione che si dimostrerà costantemente frustrato: tutti, dal padre agli amici, agli incontri casuali, cercheranno di farle violenza e lei o con la fuga o con una strana forma di complicità delusa, giocherà costantemente con la sua e l'altrui sessualità. E se l'ordine, in una realtà disordinata e caotica, è l'aspirazione profonda di tanti personaggi della produzione successiva di Dick, quello qui presentato è un ordine solo apparente, formale, a cui è sufficiente togliere una superficiale patina per scoprire il caos morale e comportamentale.

È in una California autentica e non edulcorata, presentata con forte realismo e gusto del particolare, che vagano i personaggi di questo romanzo, è là che nasce anche una particolare sensibilità musicale e sorgono luoghi in cui, senza nessuno scopo commerciale, è la musica, il suono (anche le parole e i loro suoni hanno molta importanza nella scrittura di Dick) ad avere il predominio. Ma a certe tensioni culturali innovative fa da contraltare uno strisciante razzismo che pone i personaggi di colore come tendenzialmente rifiutati o, per lo meno, osservati con sospetto dalla collettività bianca californiana. Gli elementi narrativi che si intrecciano vengono talvolta risolti in grottesche deformazioni dell'apparente, così che lo spaesamento può essere correlato al realismo, la verginità e la purezza alla sessualità più corrotta (non c'è traccia però di immagini fortemente erotiche), il bisogno di razionalità ad atteggiamenti psicotici: insomma un autore che nell'ambiguità dei temi e dei personaggi ha l'elemento di maggiore fascino e modernità.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Philip K. Dick

1928, Chicago

Scrittore prolifico e sregolato, di fama crescente, Dick ha raggiunto a tratti una grande intensità stilistica ed è considerato uno dei più importanti scrittori postmoderni, tra i classici della letteratura contemporanea. Fra i suoi romanzi di fantascienza, caratterizzati da un cupo pessimismo, si ricordano: La svastica sul sole (The man in the high castle, 1962), I simulacri (The simulacra, 1964), Le tre stigmate di Palmer Eldritch (The three stigmata of Palmer Eldritch, 1964), Ubik, mio signore (Ubik, 1969). Da Gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) è stato tratto il film Blade Runner, che ne ha fatto uno scrittore di culto.

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