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Non ci si può sbagliare: la sentenza è chiara, le prove della colpevolezza schiaccianti, il verdetto non poteva essere che quello formulato. Condanna assoluta, senza appello e senza attenuanti. Il condannato è a tutti noi ben noto: si tratta degli Stati Uniti d'America. Questo, in sintesi, il dispositivo della condanna impietosa e perentoria (e non dico che sia ingiusta) pronunciata da Fulvio Zavaroni, un giovane studioso di filosofia del Novecento, il quale, quasi per caso imbattutosi in una notizia di reato, si è investito dell'obbligo di procedere all'azione penale e, dopo aver raccolto una massa schiacciante di prove, è giunto a formulare le sue conclusioni. In questo processo, tutt'altro che indiziario, perché Zavaroni non si è risparmiato la minima fatica pur di rendere inoppugnabili i suoi argomenti, le vittime sono rappresentate niente meno che da tutti noi, l'opinione pubblica mondiale, e non soltanto oggi, ma almeno a partire dalla metà del XX secolo.
Non è vero, per l'autore, che la società americana possa essere sganciata dal suo governo e che quindi si possa assolvere la prima e condannare il secondo (un atteggiamento che invece sovente anche i progressisti hanno: una cosa è il popolo, tutta un'altra il suo governo), tant'è vero che egli elenca, nelle ultime pagine del libro, tutte le cose che non funzionano all'interno degli Stati Uniti (e che tutti noi conosciamo). Ne risulta che la politica estera è la manifestazione sintetica, ma purtroppo sistematica, della natura di quel paese e del posto che realmente occupa nel mondo, e non soltanto la faccia esibita all'estero. Ciò che impressiona, nella spietatezza dell'argomento di Zavaroni, è che è difficile trovargli delle falle: non c'è una sola riga in cui la realtà storica sia forzata o piegata a un'interpretazione capziosa. Ma sarà quest'ultima, allora, ideologica? La risposta può essere affermativa, ma soltanto se partiamo dal presupposto che a essere immersa in una costruzione ideologica sia prevalentemente la politica estera statunitense. Almeno a partire dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno strumentalizzato la lotta al comunismo sovietico per conseguire il loro fondamentale obiettivo: il governo del mondo (quello stesso cui stanno anche oggi, ancora più maldestramente, aspirando: vedi alla voce "guerra in Iraq"). Se allora si trattava di "difendere il mondo libero", oggi si tratta di "esportare la democrazia", ma non si può certo trascurare la continuità del progetto.
Secondo Zavaroni, quattro sono i livelli a cui la critica alla politica globale degli Stati Uniti può svolgersi: l'utilizzazione dell'anticomunismo come strumento di controllo sociale; l'asservimento delle economie dei paesi alleati inserite (a partire dal Piano Marshall) in un sistema economico mondiale a controllo americano; la difesa di un modello di sviluppo fondato su un capitalismo liberale, che ha bisogno di mantenere inalterate le disuguaglianze sociali e i rapporti tra ricchi e poveri; la manipolazione dell'opinione pubblica, attivata lungo due linee successive, con il cambiare dei tempi: dapprima con tecniche propriamente propagandistiche (ovvero la propagazione di menzogne vere e proprie, quando il sistema massmediatico era più semplice e rozzo di oggi) e poi con la penetrazione tecnologica fin dentro le coscienze delle masse, plagiate da catene televisive, cinematografia hollywoodiana, musica anarchicamente sfuggente alle regole (persino) del mercato. Come nasconderci che l'anticomunismo fu nutrito da una serie di operazioni "coperte" (un eufemismo inventato dai Servizi per attenuare l'odiosità delle azioni segrete e dei complotti), specie nel "giardinetto di casa" (America centrale e Latina) ma anche in Medio Oriente, nel Lontano Oriente e, qua e là, anche più vicino a noi, se e quando si trattava di dare una spintarella agli esiti elettorali in paesi colpevoli di possedere dei partiti comunisti. Sulle azioni segrete Zavaroni, che ha raccolto prove davvero schiaccianti, ha una posizione particolarmente tagliente: non ci si illuda, argomenta, che quell'odioso tipo di azioni (che a nessuno piace commettere) siano state decise in momenti estremi o nell'impossibilità di agire democraticamente: "sono la regola, non l'eccezione".
Da questa valutazione, che rappresenta anche quantitativamente l'argomento più imponente della sua requisitoria, Zavaroni fa, molto coerentemente, discendere la sua conclusione critica: che se le democrazie sono così malfatte, allora dobbiamo renderci conto che è il sistema democratico a funzionare, in se stesso, meno bene di quanto ci si voglia far credere, perché esse hanno "molte più limitazioni di quanto siamo abituati a pensare", al punto che "le società democratiche, come si sono sviluppate al giorno d'oggi, concedono ai governanti una libertà eccessiva di allontanarsi dalle richieste e dai valori espressi dai cittadini". Come dargli torto? Se guardiamo all'insieme degli eventi che elenca (cioè alle "prove" a carico che presenta), se consideriamo che tutto il mondo occidentale ne è stato pur sempre "complice" (o "coinvolto", se a qualcuno quella parola non piacesse), certo non resta che da chiudere amaramente questo libro e rifugiarsi nei sogni. Ma Zavaroni alla fine ci propone persino come un giudice che nella sua sentenza indica le misure restrittive, ma anche quelle rieducative, per il condannato i due punti sui quali dovremmo riuscire a riaprire il dibattito: la riforma delle istituzioni rappresentative, affinché riescano ad avere un controllo effettivo sulle decisioni governative; la riduzione dei centri occulti di potere e di interesse (non sempre limpidi e palesi come dovrebbero essere in una "democrazia in pubblico", così come l'immaginava Norberto Bobbio), e quindi incontrollabili.
Insomma, un giudice inflessibile; una condanna inappellabile (e in bibliografia un bell'apparato di prove a carico). Secondo Zavaroni, tutto il male del nostro tempo (ma anche di quelli andati) ha sede non osa lui e non oserei io dire perché nella sfera dell'economia, al punto che nelle ultime righe l'autore ci invita a "prendere coscienza del fatto che il sistema economico in cui viviamo genera inevitabilmente delle tensioni che non è poi in grado di risolvere". Non è il primo a dirlo, certo, ma quel che suona più inquietante e che non ci abbandona anche dopo aver finito di leggere questo libro adamantino, che si propone come un coltello affilatissimo che non può non essere tagliente né scegliere se o dove agire, è quell'avverbio messo in corsivo, al quale vorrei però aggiungere un simbolo, quello del punto interrogativo: inevitabilmente? Luigi Bonanate
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