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L’interesse di Michon giustamente si focalizza sulle figure di contorno a Rimbaud, che servono da sfondo e contrasto a far meglio risaltare l’eccezionalità del poeta maudit. Il padre assente, capitano di «guarnigioni lontane»; la vampiresca madre Vitalie, donna «sofferente e malvagia… creatura d’imprecazione e di disastro»; il delicato e romantico insegnante di lettere del liceo, Georges Izambard, convinto che la poesia dovesse rappresentare il buono e il bello del vivere. Tutti e tre questi personaggi ottennero con la loro sola presenza all’ombra di Arthur di provocarne l’insubordinazione, il ribollente rigetto di ogni convenzione, di ogni abitudine, di ogni tradizione. Il ragazzo fugge da Charleville che non sopporta, macina chilometri a piedi, arriva in Belgio, forse va a Parigi nei giorni rivoltosi della Comune. Con la protervia e la presunzione dei suoi pochi anni, invia i suoi versi ai poeti parnassiani contemporanei, come Banville o Demeny, onesti ma banali, che li leggono con stupore e spavento. Entrano prepotentemente in questa storia «Verlaine con un cappello derby sul marciapiede della Gare de l’est», la passione tormentata con il poeta ventisettenne stilisticamente più tradizionale di lui, i vagabondaggi in giro per l’Europa, gli eccessi e l’assenzio, l’alcol e le provocazioni scandalose, la gelosia folle che esplode nello sparo «all’ala dell’arcangelo atterrito», in una letargica Bruxelles. E ancora inquietudini e solitudini, le Bateau Ivre composto a diciassette anni, Une Saison en enfer scritto di furia e di nascosto nel solaio di una fattoria di Roche, ritorni rancorosi in famiglia e di nuovo fughe a Parigi, dove Arthur si lascia fotografare dal famoso ritrattista Carjat, nell’unica immagine giovanile che ci rimane: biondo, spettinato e sfinito, occhi chiari e spaesati. Poi mestieri di ogni genere, l’Italia e l’imbarco per l’Abissinia, la rinuncia alla scrittura. Quindi il tumore alla gamba, l’amputazione con la sega a Marsiglia, la morte a 37 anni.
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