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Descrizione


Il tema di questo libro è la rivoluzione della pittura, anzi dello "sguardo", attorno all'anno 1300. Il giovane Giotto ne è il protagonista: se ne seguono i tragitti attraverso i luoghi più colti e alla moda del tempo, la corte dei papi, la città di Firenze, il nord-est ricco e studioso tra la corte malatestiana di Rimini e il Veneto, con la Padova dei magnati e dei finanzieri. È soprattutto la storia dei due grandi cantieri che furono la scena della prima parte della sua vita: la basilica di Assisi, e Padova, tra la cappella degli Scrovegni e la basilica del Santo. Attorno all'operare del maestro e delle sue botteghe, prendono vita i personaggi e i luoghi dell'Italia del voltare del secolo: usando le chiavi dell'indagine stilistica e di quella tecnica, la lettura dei programmi iconografici e dei metodi della bottega e del cantiere, spiando gli indizi nelle opere e nei documenti, si comprende come Giotto abbia saputo, come nessuno, segnare il nuovo contatto con il mondo, la moderna capacità del narrare con le immagini, il ritrovato amore per la natura.
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Dettagli

2008
15 aprile 2008
420 p., ill. , Brossura
9788837059347

Voce della critica

Dedicare un libro a Giotto richiede coraggio e fiducia: per la rilevanza del personaggio, per l'intangibilità del molto perduto, ma soprattutto per l'incombente tradizione letteraria e storiografica, avviatasi artista vivente l'una, ancora fortemente divisa, l'altra.
Serena Romano ha studiato a Roma con Angiola Maria Romanini, che molta attenzione aveva dedicato ai problemi della visione e al naturalismo gotico, specie in Arnolfo, tanto da volerne riconoscere l'opera nella Benedizione di Giacobbe e in Esaù respinto dal padre: le Storie d'Isacco, scene cruciali per la decorazione della Basilica superiore di Assisi e tradizionalmente riconosciute come opera del giovane Giotto. L'eco che quell'idea ha conosciuto negli studi degli ultimi decenni è l'implicito punto di partenza per riaffrontare il tema nella prima metà del libro, dedicata appunto alle affinità e differenze fra le Storie d'Isacco e la celeberrima Leggenda francescana dipinta nella stessa chiesa. L'altra metà è invece consacrata al secondo grande snodo problematico della biografia giottesca, ovvero alle affinità e, soprattutto, alle differenze fra gli affreschi assisani e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova, che tanti dubbi hanno sollevato negli storici tedeschi e inglesi, incapaci sovente di riconoscere nelle scene di Assisi il pittore di Padova. "Al fondo della ragion d'essere di questo libro c'è dunque questo problema specificamente storico-artistico: la formazione di Giotto, le tappe del suo percorso nella prima parte della sua vita".
L'autrice è ben consapevole che il problema non è nuovo, anzi fra i problemi giotteschi è il più battuto e dibattuto, e deliberatamente seleziona fra i molti possibili percorsi di indagine due aspetti da mettere in causa: la tecnica narrativa (soprattutto ad Assisi) e la rappresentazione della figura umana (a Padova). Per questa via il saggio sposa "l'ipotesi estensiva", ovverosia, che il giovane Giotto si sia manifestato nel cantiere della Basilica di San Francesco con il dittico di Isacco, abbia prese in mano il cantiere per la conclusione della decorazione della parte superiore della navata; che grossomodo entro la metà del nono decennio abbia guidato quello delle storie francescane per approdare, a distanza di quasi un decennio, alla maturità di stile padovana.
Nel merito storico, l'apporto più rimarchevole discende dalla visione della chiamata di Giotto in Veneto come di un "evento corale": la sua ricostruzione, per un verso, non nega il vettore delle committenze francescane, già accreditato nei primi lustri del Trecento dalla Compilatio Chronologica di Riccobaldo Ferrarese, per l'altro chiama però in causa personaggi eminenti, quali il cardinale Simone Paltanieri, capaci di fare intravedere un legame diretto fra le élite curiali e quelle patavine.
Di pari interesse sono le brillanti osservazioni sul cantiere, e più in generale il modo e l'articolazione con i quali vengono indagate ed esposte alcune specificità di un'inaudita intelligenza pittorica. In particolare, è argomentato come Giotto "guardi ai modelli antichi e li rilegga comprendendoli nella loro portata più profonda e metaforica; li usi senza lasciarsene mai dominare in modo antiquariale". Per farlo, l'autrice mette a frutto i suoi migliori studi sui tempi lunghi e sulle dinamiche della tradizione dei motivi figurativi antichi nella pittura romana, ma altresì ne diversifica i riferimenti per contribuire a spiegare il cambiamento della pittura di Giotto da Assisi a Padova: se là l'orizzonte di riferimento era genericamente quello della pittura del "Secondo Stile", qua "è quello della scultura (…) specialmente quella antica, generatrice di un universo plastico che nel punto di stile assisiate di fatto non esiste", e del quale i circostanziati confronti non lasciano dubitare.
Dalle pagine emerge una ricostruzione della figura di Giotto storicamente corretta, convincente e affatto banale nelle scelte argomentative. L'originalità della rivisitazione induce talvolta a qualche acrobazia metodologica: se, ad esempio, è indubitabile la crucialità dell'architettura dipinta nell'organizzazione figurativa e per il "rallentamento del ritmo" al fine di sottolineare e perciò condizionare le singole scene, suona strumentale e implausibile arrivare a pensare che "il tradizionale dispositivo di finta architettura venisse attribuito, non più alle storie testamentarie, ma alla vita di san Francesco", il cui impaginato architettonico mostra invece, stabilito il programma, i caratteri dello sviluppo non previsto in avvio di cantiere.
Per quanto esplicitato che il "filtro storiografico (…) sia un dato ineliminabile di chi studia oggi i problemi giotteschi", il saggio non nasconde un orientamento occasionale nella conoscenza della storiografia. Al contempo, però, è proprio la riconoscibilità della sua genesi a valorizzarlo: l'autrice forza i temi ricorrenti nell'ambiente della sua formazione e ne supera le incertezze entro un orizzonte ben più ampio. Nella tradizione romana degli studi cade così una pregiudiziale di lungo corso: la separazione delle storie di san Francesco da quelle di Isacco. Riunendole, Romano supera la dicotomia discendente dai nobili lombi di Cesare Brandi, il quale, sulla scia della Mostra giottesca del 1937, aveva appuntato la sua penna sulla croce di Santa Maria Novella – opera giustamente valorizzata nel libro – pensando di riconoscervi un seguace del maestro, tanto da separare anche i due nuclei della decorazione assisana. È da queste considerazioni che storiograficamente discendeva l'esigenza di Romanini di trovare un nome diverso per il Maestro d'Isacco; ma anche, a parti invertite, quella di Zeri, e quindi di Bruno Zanardi, di trovarne uno per l'autore della Leggenda francescana (è loro l'ipotesi che fosse opera di Pietro Cavallini). Dall'interno di quell'alveo il libro supera l'impasse e trova una precisa collocazione nella sterminata vicenda storiografica giottesca.
Altro merito del volume è quello di cogliere come "Giotto giovane non fosse un pittore del Trecento, il più grande direttore di una bottega fiorentina, ma l'espressione più diretta e impressionante della civiltà del Duecento italiano": sulla considerazione dell'organizzazione artigianale toscana prevale utilmente la lunga frequentazione della studiosa con quel secolo a Roma. Per la storiografia Giotto è sempre stato "il primo dei moderni" e non anche "l'ultimo degli antichi", con gli inevitabili contraccolpi conoscitivi di tale atteggiamento. La corretta prospettiva consente invece acute considerazioni sulla sua disposizione figurativa, specie nelle figure dei vizi e delle virtù nel "dado" della cappella padovana, per le quali l'autrice riconosce come "nella natura finta risieda la loro massima capacità retorica [e come] nella pittura di Giotto l'oggetto dipinto non appaia simile, ma identico all'oggetto reale". È un efficace ed esplicito calco da Boccaccio ("non simile ma desso paresse"), che orienta su come lo scopo della pittura di Giotto, in primo luogo, non fosse quello di riprodurre l'apparenza della natura, quanto piuttosto di essere "tanto simile, in quello atto ch'egli la fa, a quella la quale la natura ha prodotta" (di nuovo Boccaccio).
Molti sono gli spunti che il saggio propone. Il lettore intenda la presente sommarietà di argomentazione non a discapito della rilevanza del volume e ricordi come il titolo richiami un celebre aneddoto vasariano. Giotto, per presentare la sua arte a papa Benedetto IX, "prese un foglio et in quello con un pennello tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sì pari di sesto e di proffilo che fu a vederlo una maraviglia". Per Romano è soprattutto il recupero di un topos antico e "metafora del tragitto di un artista, o dell'ipotesi critica che lo ha voluto tale". Non si dubita però che, se il maestro ne potesse udire le ragioni, da "bellissimo favellatore" qual era (Boccaccio) e per lo sprezzante amore toscano di paradosso esclamerebbe con Vasari: "Assai e pur troppo è questo, mandatelo insieme con gli altri e vedrete sarà conosciuto".
Alessio Monciatti

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