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Il teologo Paolo De Benedetti, citando testi rabbinici (e Karl Barth, Giovanni Calvino, Martin Buber, Abraham Heschel, Dostoevskij) commenta, incalzato dalle domande di Gabriella Caramore, una novella scritta da Luigi Pirandello nel 1911. Il protagonista di quel racconto, Tommasino Unzio, un giovane uomo vinto dalla vita e dalla cattiveria altrui, dopo aver abbandonato gli studi in seminario per "sete d'anima" e quindi di autenticità, viene preso "d' una tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza sapere perché, in attesa del deperimento e della morte". E cosa c'è di più indifeso, caduco, tenero d'un filo d'erba? "Il filo d'erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!". Per proteggere l'esistenza fragile di un filo d'erba Tommasino muore. E Paolo De Benedetti proclama la nobiltà assoluta, e la necessità, di questa consapevole sintonia con tutto ciò che è vivo, quindi non solo con il mondo umano e animale, ma anche con quello vegetale. "Per lui il filo d'erba è 'prossimo'. E ha ragione, perché tutto ciò che esiste, che vediamo, che tocchiamo, è un 'tu' per noi...le vie dell'incontro con il divino sono molteplici e in gran parte non coincidono con la fede...Il filo d'erba, nella sublime invenzione di Pirandello, è anch'esso un tu, in cui è presente Dio. E' stato detto che Dio sta nel dettaglio...Quel filo d'erba è 'conosciuto' da dio, altrimenti non esisterebbe...". Tutto ciò che vive 'risponde' alle domande dell'uomo e di Dio stesso; qualsiasi esistenza -anche la più deperibile- ha diritto alla resurrezione e all'immortalità. Facendo eco alle tesi di Emanuele Severino, Paolo De Benedetti esprime questa aspirazione derisa da ogni paradigma scientifico: "pretendere da Dio - dico proprio pretendere- una restituzione di tutta la vita...su nuovi cieli e nuova terra... restituzione di tutto ciò che era vivo, come era vivo".
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