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«Garcilaso de la Vega, Miguel de Saavedra detto Cervantes e William Shakespeare, scomparvero contemporaneamente la notte tra il 22 e il 23 aprile 1616. Sulla loro tomba si legge l'identica iscrizione: 'Buon amico, per amor di Dio, non frugare tra la polvere qui racchiusa'».
recensione di Bo, R., L'Indice 1996, n. 4
In un universo dominato da irriducibili dicotomie, Garcilaso de la Vega, detto El Inca (che fu storico del suo popolo nei "Comentarios reales", e anche narratore e traduttore del filosofo portoghese Leone Ebreo), rappresenta il diverso, l'Altro, colui che in potenza possiede le chiavi per coniugare la cultura di hombre natural che gli è propria e quella spagnola, intrisa dell'ossessiva ricerca della limpieza de sangre, una nobiltà del sangue in nome della quale si sacrifica ogni intrinseca potenzialità individuale.
Questa alterità è evidente già nella sua natura di meticcio, discendente illegittimo di un capitano spagnolo - padre inesistente e distaccato - e di una saggia e amorevole principessa india: sradicato in giovane età dalla propria terra peruviana, Garcilaso (il cui nome originario è G¢mez), approda nella Spagna della seconda metà del Cinquecento dove tenta di conciliarsi con le regole del vivere sociale della sua nuova patria, a partire dalla lingua, dai costumi per finire al cambiamento del proprio nome.
Per essere accettato combatte una guerra non sua, si macchia delle immancabili stragi che l'essere soldato - e capitano per giunta - comporta: ma l'auspicato radicamento della sua anima in terra spagnola non avviene, e il filosofeggiante mestizo si emargina in un'esistenza appartata, addolcita solamente dalla presenza della malinconica schiava Beatriz e del loro figlio Diego.Si dedica quindi agli studi, alla "civil conversazione" con spiriti altrettanto illuminati del suo: l'amico Xan Pedreira, in gioventù, e Miguel de Saavedra, detto Cervantes, negli anni della vecchiaia (che tra il resto costituisce anche il trait d'union ideale con Shakespeare, "l'eretico inglese"; per una singolare coincidenza che mette in luce la celeste corrispondenza tra le loro anime, i tre scrittori condividono la data della morte e l'epigrafe tombale).Non cessa mai la sua ricerca volta a smascherare le origini del dolore e dell'infelicità umana, n‚ mai viene meno alla sua mente il vivido ricordo del suo popolo, ormai annientato, ricordo che i lettori assaporano nel continuo richiamo alla profondità religiosa, fatta di "ombre palpitanti", della cultura incaica, così come nelle riuscite figure della nobile madre ChimpuOcclo, del vecchio servo Otaz£, ma anche nelle minuziose e quotidiane rievocazioni di semplici giochi tra bimbi, di campi di mais, di animali colorati ed esotici.
Nessun ponte (fatta salva l'eccezionalità dell'incontro con l'evoluto Bartolomé de las Casas) può dunque essere gettato tra la Spagna e il NuovoMondo (e, in senso lato, tra culture differenti) a meno che non si prendano le mosse da un profondo desiderio di conoscenza della diversità, di ciò che è altro da noi ma non per questo non ci somiglia: "La base della virtù è il riconoscimento degli altri, della loro diversità. È l'uomo che rende umano l'uomo".La conclusione a cui giunge la meditazione di Garcilaso (formulata attraverso una serie di baroccheggianti metafore: il Doppio, lo Specchio...), circa lo svolgersi del destino dell'uomo, individua nell'eterno alternarsi di Luce e "scurità", il paradigma che regge il mondo: "Tutto svanisce - sono parole del protagonista -, farfalle, fiori, uccelli, conchiglie; tutto si sviluppa dispiegando le risorse della propria combinatoria, per poi dissolversi e annientarsi; tutte le faccende umane, anche le più belle, lingue, istituzioni, capolavori artistici, tutto è effimero, ma la vita non finisce".All'interno di un tale ciclo, rifiutare l'altro (lo straniero, il diverso, il deforme, come nel caso dello sciancato Diego) per paura, per ignoranza, significa rifiutare l'Altro che è in noi, precludendosi la via dell'equilibrio, dell'armonizzazione del nostro essere, rifiutare, in una parola, la nostra stessa umanità.
Storia densissima di desideri e sogni, a occhi aperti e chiusi, quella diGarcilaso, di cui si fa biografo fittizio il mite e devoto figlio naturale, e che Laura Pariani (al suo primo romanzo, dopo i fortunati racconti "Di corno o d'oro", 1993) conduce con mano sicura - fatta salva qualche esitazione nella prima parte, invero più faticosa, della narrazione - tra ardite mescolanze linguistiche e sotto la luce di una luna (il sottotitolo dell'opera recita infatti "Quattordici notturni") favorevole all'intessersi di trame deliziose: "Alla luce della luna... si può fantasticare, ci si può nascondere, perché essa ci protegge con la carezza della fantasia e l'ardore dei desideri".
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