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Un ingenuo e provvisorio abitante del mondo detta le sue istruzioni per rendersi felici, raccontando dei suoi amori e dei suoi lutti.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Sì e no. Sì, perché quello stile fatto di tante incidentali l'ho già apprezzato in una precedente lettura di Cornia; no, perché una cosa è raccontarsi con una prosa "organizzata" (e l'autore ha dimostrato di saperlo fare molto bene altrove) e un'altra è trascrivere il libero pensiero così come sgorga, senza alcun affinamento lessicale. Insomma, un libro troppo grezzo per i miei gusti.
più che sulla felicità ad oltranza direi sulla malinconia ad oltranza. comunque leggibile, l'autore sa scrivere molto bene.
Un libro scritto come un lungo flusso di coscienza, scandagliando diversi periodi della vita: i momenti di crescita durante l'adolescenza, i rapporti famigliari, la scuola, le amicizie, il rapporto col mondo che ci circonda. Lo stile di scrittura assomiglia molto al parlato, infatti a tratti lo si sente un libro vicinissimo, altre volte astruso. Ma più di tutto è un romanzo sull'accettazione della perdita dei propri cari, per affrontare la morte quasi con serenità, ricercando anche nei momenti luttuosi quella "felicità a oltranza", facendoci prender coscienza che la morte è parte della vita, e non il suo semplice capolinea. Godere del tempo che abbiamo a disposizione, cercando di evitare rimpianti, vivendo quella "felicità a oltranza" oltre il confine piu buio delle cose.
Recensioni
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recensioni di Capitti, M. L'Indice del 2000, n. 04
Questo libro d'esordio del modenese Ugo Cornia (1965) sfugge a ogni definizione e convenzione di genere. Non è, infatti, in senso proprio, un racconto o una raccolta di racconti, ma piuttosto una serie di divagazioni saggistico-narrative sulla morte, sui molti che ci abitano e che noi siamo, sulla tenacia e la resistenza degli affetti che ci tengono avvinti a persone e cose, sulla pazienza ovvero sulla disponibilità a lasciare che il mondo sia e che i suoi elementi possano disporsi secondo il tempo che è loro proprio e, infine, sulla possibilità stessa di fare esperienza e renderla oggetto di racconto.
La lettura del testo è costantemente accompagnata dalla sensazione che gli eventi si raccolgano in una compiutezza che non ha la costrittività e l'esaustività del sistema, ma è l'esito dell'intreccio riuscito tra l'immediatezza con la quale la vita si offre e il momento, successivo, della riflessione su di essa. È sorprendente che, soltanto quando si sia portata a termine la lettura dei quattordici capitoli dell'opera, ci si renda conto delle innumerevoli storie narrate: alcune, appena accennate, raccolte in poche righe; altre, sviluppate in modo più ampio, affollate di personaggi che animano una piccola sinfonia, dove persone, animali, oggetti e paesaggi godono della stessa rilevanza e della stessa dedizione e cura da parte del narratore.
Tutto, nell'universo descritto da Cornia, concorre a quella sensazione di felicità stupita che è il sentimento dominante del libro; tutto, senza distinzioni o gerarchie, conduce alla pienezza. Ugo, il protagonista, prova affetto per curve e semafori, per la vecchia automobile lasciata morire sotto il noce, oppure dichiara il suo amore per la casa dove ha vissuto un'intensa esperienza erotico-sentimentale e dalla quale, una volta, è fuggito "scavalcando la ringhiera come un anarchico scappava dai carabinieri". Il cane randagio Brown diventa maestro di dignità e libertà perché insegna l'affetto privo di possessività, forte perché gratuitamente dato.
Il racconto ruota attorno alla morte dei genitori e della zia del protagonista: se è vero che la loro sparizione, come ogni sparizione, incrina la fiducia nella compattezza e nella rotondità del mondo, è altrettanto vero che diventa occasione di ricordo e, insieme, della ricerca di nuovi punti di equilibrio in grado di ricucire la frattura che si è appena aperta nell'universo affettivo dell'io narrante. Il protagonista racconta le sue vicende sentimentali e i suoi ripiegamenti interiori e, nello stesso tempo, ci mette a parte del progressivo affinamento della sua concezione della vita in uno sviluppo della narrazione che accosta e fa interagire, continuamente, passato e presente.
Credo che qui risieda il fascino del libro, in questa contiguità di passato e presente: l'uno sfuma nell'altro, cosicché se, per suo conto, il passato continua ad agire sotto rinnovate forme nel presente, quest'ultimo ne accoglie aspetti cui consente nuove possibilità di realizzazione. La morte, allora, non assume mai il carattere della definitività. I morti continuano ad affiancare e visitare i vivi, prendono possesso dei loro corpi: la bocca di Ugo è portavoce delle esclamazioni della zia, il padre ricompare in bicicletta, la zia regala ai nipoti presenti al suo funerale una bella giornata di sole. Ugo sottolinea in più occasioni la gioia di ritrovare, entro sé, un legame creduto perduto, ma i ruoli sono cambiati e le dipendenze sono rovesciate; se, viva, la madre garantiva la serenità dei figli, adesso è lei ad aver bisogno dei loro corpi per esistere ancora. La felicità, allora, è desiderio di affermare la vita nonostante la sua tragicità: felicità ad oltranza, appunto, a dispetto di quelli che vogliono imbrigliare la morte entro la ferrea ritualità del lutto.
L'io, però, deve sostenere la fatica di questa manifestazione e accettare di contrarsi, perché solo così può ospitare voci, suoni e odori del mondo, salvandoli dalla caducità e dal pericolo della loro scomparsa. L'autore non decreta la fine dell'io, piuttosto sposta l'accento dalla sua monoliticità o, come direbbe Canetti, dalla sua terribile unitarietà alla molteplicità, ai molti che lo abitano. L'io di Ugo accetta di farsi modificare dal mondo e offre la disponibilità a farsene sorprendere. Le cose capitano inaspettate, per questo motivo Ugo si propone di assecondarne il corso senza ambire a mutarle e accettando che seguano "il loro moto naturale proprio di cose che devono andare per la loro strada, anche a stamparsi sui platani".Ugo diventa, allora, un luogo brulicante di presenze, lo spazio di un dialogo ininterrotto tra "pezzi" di sé e di altri; la sua testa scopre di custodire altre teste che "andavano e venivano, spesso dicendo e facendo cose al posto mio", in uno scambio continuo tra interiorità e mondo esteriore, che si rovesciano l'una nell'altro senza salti o fratture. Per concludere, c'è un'immagine che chiude il racconto evocando la grazia di una donna che sa "toccare le cose in punta di dita". Cornia sembra alludere a un differente sentire, al pudore silenzioso di fronte alla bellezza che è, però, anche e soprattutto, la bellezza concreta dei corpi e delle cose.
Un ingenuo e provvisorio abitante del mondo detta le sue istruzioni per rendersi felici, raccontando dei suoi amori e dei suoi lutti.
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