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Far raccontare da una voce bambina una storia di adulti e destinata a un pubblico adulto -è una scommessa rischiosa (in ambito letterario, quantomeno). Ma Paolo D'Alessandro sembra proprio l'abbia vinta, riuscendo a rendere assai credibile l'io narrante ragazzino del suo breve romanzo d'esordio intorno a una sofferta cronaca familiare il cui snodo ha per fulcro un assente - il fratello del piccolo narratore, detenuto in carcere per un non meglio precisato delitto - e per leva la pietas tra lo struggente e il paranoide d'un padre, il quale non intende arrendersi di fronte alla condanna (e alla colpa) d'un figliolo che - non sappiamo come, quando e perché - ha deviato dalla retta via d'una educazione piccoloborghese, finendo col venir condannato a un lungo periodo di reclusione.
Ma più che i colloqui, cui il bambino non partecipa ("ne ero escluso") o lo fa in modo superficiale ("loro parlavano degli avvocati, del processo, delle indagini, parlavano un'altra lingua"), è tutto quanto li precede e li segue a essere oggetto delle sue considerazioni; giacché ormai la vita familiare gira sempre e solo intorno al perno fisso dell'appuntamento settimanale con il carcere: spazio alieno rispetto a quello casalingo e infantile. Quindi, costretto a tali incontri inquietanti, il narratore - quasi per un'urgenza di allontanamento da quel luogo "troppo duro" - si spinge a inseguire particolari e dettagli che non catturano l'attenzione dei genitori ("spesso io m'incantavo guardando quei glicini inzuppati d'acqua fuori della finestra"), non dicono nulla agli adulti ma rivelano al lettore tutto un mondo/modo altro, una prospettiva altra di esperire eventi, vissuti ed emozioni.
È dunque questa la cifra felice del romanzo: il suo carattere peculiarissimo, grazie al quale l'autore riesce a descriverci - lateralmente o per accenni all'apparenza incongrui - sofferti ritratti psicologici e vicende drammatiche senza enfasi alcuna, ma colte attraverso un'ottica fatta di stupore, freschezza e ingenuità mai sfiorata dal disincanto pur di fronte allo smarrimento d'un padre "tanto disperato".
Così, dei famigerati giorni di colloquio, l'io narrante evidenzia soprattutto la pioggia metaforicamente ricorrente ("pioveva oppure mi sembrava che piovesse"), i silenzi davanti alla prigione, rotti solo dal "rumore del ferro" dei chiavistelli. Né il lettore viene a sapere più di tanto sul detenuto Felice, accusato e condannato per un omicidio su cui il romanzo non s'addentra minimamente, né apre spiraglio alcuno per una qual sorta di pudicizia o riserbo. Peraltro non è questo il tema di Colloqui, inteso soprattutto a testimoniare le variazioni di un generale straniamento, che accomuna grandi e piccoli - l'io narrante e il fratellino come i genitori - costretti a interrogarsi senza trovare risposte consolatorie sul perché del male, della violenza e della colpa e a penetrare nel luogo per antonomasia deputato all'espiazione (in primis i bambini: l'innocenza incarnata) ovvero il carcere, "pianeta" anni luce distante da quello protettivo domestico/familiare.
Ma la voce narrante riesce a trovare il vocabolario per dire l'ammutolirsi dallo sconcerto e dal dolore. Perciò, quantunque sia arduo "azzeccare una parola " - come confessa il piccolo protagonista riferendosi a un gioco tra lui e il fratellino, consistente nel trovare "una parola" giusta per definire compiutamente una situazione - mi pare, invece, che qui Paolo D'Alessandro riesca ad azzeccarle davvero tutte.
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