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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2012
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Un incendio, un dramma familiare, una Sardegna arcaica. E la verità che si svela lentamente.
Inizio di grande efficacia. Poi avvenimenti e personaggi ci vengono incontro spesso in agili flash-back. Il ritmo è di classica inchiesta criminale, che però si arricchisce di dati intriganti che direi di forza antropologica e psico-sociologica, per esempio intorno a uno dei temi portanti, il riuso turistizzato di modi di vita tradizionale da poco finiti, oppure sulle forme attuali della cosiddetta riproduzione assistita. Interessante l'accostamento tra Nordeuropa e l'isola di Sardegna. La figura del vecchio ex pastore sardo alle prese con la postmodernità ha uno spessore di classica tragicità. Unico neo forse un eccesso di sintesi in certi momenti nodali, come quello della notte della rivelazione di ciò che più offende il vecchio Costantino. Comunque, libro molto raccomandabile.
Se dopo 100 pagine (su 240) un libro non ti prende, si trascina, non ti fa accendere la fiammella del gusto e della curiosità, meglio lasciar perdere. Se in 100 pagine non succede pressochè nulla ma vi è solo evocazione ripetitiva di ricordi, meglio lasciar perdere. Ho lasciato perdere perchè, dopo tutto, terminare la lettura di un libro non è un obbligo ma un piacere. Evidentemente io e questo libro non eravamo fatti per piacerci.
Recensioni
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Un'immagine di distruzione e desolazione apre l'ultimo romanzo di Giulio Angioni. Fuoco e acqua hanno devastato Assandira – questo il titolo del libro – "antico paese rurale divenuto di colpo luogo per i turisti" che, è noto, non sanno distinguere il vero dalla sua parodia. Ad Assandira, infatti, "era tutto un sembrare e sembrare era tutto" al punto che Mario Saru, figlio di Costantino, il protagonista, fingeva ad esempio di svegliarsi, antico pastore, abbracciato a una pecora per la gioia degli ospiti e la loro curiosità morbosa. La natura, però, al pari di Nemesi, ha ridotto l'agriturismo a un "niente di nessuno" come avesse deciso di ristabilire l'ordine delle cose violato dall'incauto e insensato intervento umano che ha osato rifare il verso all'antico. Ha preteso, cioè, di riprodurre, a pro dei turisti per denaro, tradizioni, storie e modi di un tempo passato intessuto di fatica, dolore, privazione.
Profanazione, dunque, che ha fatto di "una cosa molto seria" "un gioco, un passatempo", cosicché a Costantino, il "vecchio", pare inverosimile che la gente non solo faccia festa "vedendo fare il lavoro del pastore", ma, persino, paghi per farlo, per caricarsi di quella fatica la cui fine, invece, lui ricorda aver accolto con sollievo e liberazione. Il figlio, però, e Grete, la sua compagna danese – "cosa nata fuori, venutaci dal mare" eppure, anche, "cosa forte, lieve, festosa, lucente" – avevano insistito per trasformare la vecchia casa colonica in agriturismo. Del resto, l'anonimo professore – un antropologo, forse? – aveva consigliato loro di puntare "a campare di identità, di tradizione", di un'autenticità reinventata, ridotta, magari, a una grottesca "mascherata". Soleva anche dire che i sardi sono "speciali, peculiari, etnici". Il vecchio avrebbe dovuto recitare il "tipo di uomo antico", incarnare, cioè, la "memoria storica ed etnica", una sorta di "certificato di garanzia di origine controllata e garantita".
Fatica, però, a capire e accetta senza condividere. Si alternano, in Costantino, il rifiuto di "ruminare quella paglia nuova", il desiderio di "tenersi al sicuro, al conosciuto, al già noto", ma, anche, la voglia di mettere da parte il suo stare "all'erta contro tutto e tutti". Egli si muove, tra gli ospiti, con "l'aria di chi non si impiccia e non si vuole compromettere", preferendo lasciar fare. Stretto, pertanto, tra un mondo familiare prossimo al tramonto o già tramontato e uno nuovo, incomprensibile e minaccioso, perché le cose, all'improvviso, si sono messe a "significare qualcosa d'altro", il vecchio accetta la parte. Accetta insieme – "vergogna" immonda che lo "stringe" fino a trasformarsi in ossessione e nel sentimento dominante del romanzo – di dare il suo seme a Grete per l'inseminazione artificiale. Vergogna, quindi, inaggirabile due volte: per aver accettato, con l'agriturismo, complice del figlio e di Grete, lo stravolgimento della storia sua e del paese e, soprattutto, per aver acconsentito all'inseminazione, a un atto che, al pari dell'incesto, sovverte e rovescia il senso profondo dei legami primari, genitore e figlio, nonno e nipote. Costantino, infatti, continua a non capire di chi sia quel figlio, se suo o di Mario; sa solo che ne desidera la nascita con forza, perché conosce la pena e la fatica del nascere e, allo stesso tempo, quanto poco ci vuole a non nascere.
Destino tragico, allora, quello del vecchio, perché come Edipo – Edipo rovesciato, però, perché qui si tratta del padre che uccide il figlio – è, contemporaneamente, colpevole e innocente. Non vuole la morte del figlio, eppure la provoca; porta la colpa di un mondo manomesso e, nel contempo, il dovere di rimettere le cose al loro posto, assestando anche, per ricondurle nei loro "cardini", un "colpo duro". Per questo motivo, confessa, "si precipita a concludere, di colpo, come se fosse stufo di cercare salvezze provvisorie, ma solo bisognoso di una condanna, per un figlio morto e per tutto il groviglio di nascita, copula, morte", per la verità, insopportabile, di essere padre un'altra volta in concorso col proprio figlio. Innocente, forse, per la legge, sente aggrovigliarsi dentro di sé, indistricabili, come colpe antiche, antichi dissidi irrisolvibili: quello tra padre e figlio, in primo luogo, per cui il padre è sempre di troppo per la necessità del figlio di nascere e crescere, mentre il secondo incarna agli occhi del primo l'invito, imperioso, a cedere il passo. E infine si scopre diviso dal conflitto tra il suo amore paterno irrisolto per Mario e, inconfessabile, la rivalità mimetica per Grete che li contrappone.
Nella constatazione dolente dell'ambivalenza insediata nel cuore stesso della condizione umana, per cui gli opposti permangono inconciliati e inconciliabili, credo risieda l'incanto del libro di Angioni.
Massimo Cappitti
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