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Il libro più tragico di Dovlatov, l'unico in cui la malinconia e la rassegnazione sembrano estendersi come una cancrena. Utile, ad ogni modo, per scrutare l'altra faccia della medaglia di questo scrittore d'oro.
Sergej ferocemente ed elegantemente ironico verso il Nuovo Mondo. Un occhio alla Terra nativa e uno all'America. Ma non uno sguardo liquido di vodka, il lampo d'intelletto che fa la differenza, che inquadra Dovlatov tra i migliori interpreti della letteratura russa contemporanea; brevi riflessioni, piccole icone della quotidianità che racchiudono il senso della vita. Fatta di memoria, sofferenza, riscatto e rassegnazione. Non ci troviamo di fronte al brillante dissidente conosciuto nella precedente produzione: le disillusioni, ma, soprattutto, la nostalgia traspaiono nelle brevi notazioni quotidiane. Solitudine, desolazione.... Il destino di chi deve rinunciare alla propria Terra per aver dimostrato la libera essenza della sua anima.
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Ai defunti non è concessa l'occasione di pronunciare un discorso davanti alla propria bara, una sorta di "denuncia funebre" rivolta contro coloro che hanno contribuito a sotterrarli. Tale occasione è stata concessa, invece, a Sergej Dovlatov (1941-1990), che, con la sua paradossale "denuncia funebre", ha indicato le assurde derive dell'"onnipresenza della stupidità". Lo "scapigliato leningradese tormentato dall'alcolismo", l'esule per metà ebreo per metà armeno emigrato negli Stati Uniti nel 1979 (perché disgustato da quella "porcheria" definita "comunismo reale") non è stato l'ultimo scrittore sovietico, ma un "trovatore" irridente e inattuale al quale si deve, tra l'altro, la satira postuma dei "nuovi russi". Il 3 settembre 2006, al Mejelhol'd Centr di Mosca, è stato festeggiato il sessantacinquesimo compleanno di Dovlatov (assente per morte) con uno spettacolo allestito da Eduard Bojarkov nello stile del "teatro-documentario" e con brani tratti dall'opera dello scrittore, per la maggior parte autobiografica. Nell'ambito di questa celebrazione della vita di Dovlatov, la moglie e la figlia dello scrittore (Elena e Katja Dovlatov) hanno presentato il volume Reč' bez povoda ili kolonki redaktora (Discorsi senza motivo o colonne del redattore) che raccoglie gli articoli rari o inediti destinati al "Novyi Amerikanec" ("Nuovo Americano"), un settimanale della "terza emigrazione" sovietica stampato a New York tra il 1980 e il 1982 e fondato dallo scrittore.
Con i suoi "fantasiosi" articoli, contenuti in questo volume, Dovlatov ha riabilitato la nobile arte del feuilleton secondo lo stile del giornalismo russo ottocentesco: il feuilleton non è solo una corrispondenza "satirica", ma anche "un colpo d'occhio", un "discorso senza un preciso motivo". In Russia, i "discorsi senza motivo" sono ora un bestseller e sono l'ideale completamento di La marcia dei solitari pubblicato nel 1983 dallo scrittore, quale raccolta degli editoriali di "Novyi Amerikanec". Nella prefazione Dovlatov descrive con divertito humour noir l'"apogeo e il declino" di un "giornale democratico alternativo", di una "tribuna aperta" ai sostenitori di "idee diametralmente opposte". "Novyi Amerikanec" era, anzitutto, per lo scrittore russo, un'avventura esistenziale, la "storia di un'anima in pena", "l'ultimo guizzo di una prolungata giovinezza". Dovlatov ha vissuto l'esilio non come homo politicus,ma come un bislacco homo poeticus, un maestro dell'arte della satira e dell'aforisma che, simile a un pellegrino disincantato ed ebbro, attesta l'impossibilità di diventare americano (né nuovo, né vecchio). Dovlatov fa proprio il retaggio di quell'"umorismo russo" (da Gogol' a Čechov) che, con le sue "battute sferzanti e amare", è il "fregio" di un popolo che nella letteratura ha assunto un "volto carismatico".
Una "personalità paradossale" e ironica risulta del resto pericolosa sia per il totalitarismo, sia per il conformismo di massa, perché il mondo contemporaneo è tenuto in ostaggio da "persone tetre" che lo conducono inevitabilmente sull'"orlo della catastrofe". Dovlatov esorta a seppellire con una risata i maniaci ideologici ("russofobi", "antisemiti", "atei militanti", "missionari isterici", "falchi" e "colombe"): descrivendo con beffarda ostilità le ossessioni della stupidità ideologica, riesce inoltre a essere inviso sia al potere sovietico, sia all'emigrazione russa. Dovlatov, infatti, non può essere inserito nella variegata costellazione dei dissidenti, divisi in partiti in lotta tra loro con il solo fine di "compromettere l'avversario ideologico". Non diversamente da Venedikt Erofeev (autore di Moskva-Petuki, il poema dell'alcolismo metafisico, una via crucis senza resurrezione), Dovlatov è un irregolare, un imperdonabile refrattario e un satiro solitario che dissacra i miti e leggende del comunismo e dell'anticomunismo. La "poetica" di "Novyi Amerikanec" è "eclettica, eterogenea e universale" e avversa la "tirannia, la demagogia e la stupidità". Per questo il settimanale russo (espressione della "martoriata cultura russa"), americano (difensore della democrazia) ed ebraico (organo non "etno-nazionale" della "terza emigrazione") è stato accusato di sciovinismo ebraico, di giudeofobia, nonché di complicità con il regime sovietico per aver pubblicato alcuni articoli critici su Solenicyn. Sebbene all'epoca in cui Solenicyn era internato nel Gulag avesse solo tre anni, Dovlatov (che come racconta egli stesso in Regime speciale, era stato, durante il servizio militare, sorvegliante in un campo di lavoro forzato) era additato come un aguzzino del futuro premio Nobel. Pur facendo proprio il nobile appello delle due colonne del dissenso (Solenicyn e Sacharov) a non asservire (come un ilota cinico) la propria vita alla menzogna, Dovlatov afferma che la Russia (dopo Lenin) non avrebbe dovuto più avere bisogno di profeti da venerare. Di fronte allo "squittio dei servili partigiani" di Solenicyn e traendo insegnamento dall'amara esperienza russo-sovietica, Dovlatov sostiene che non si può aderire a delle idee in "modo sconsiderato" e fideistico, divinizzando le personalità più carismatiche. Sia la propaganda sovietica (destinata a suscitare la "reazione opposta"), sia le dispute tra i dissidenti erano espressione di un idiota autocompiacimento individuale e/o collettivo: per questo lo scrittore irride quegli emigrati russi che si ergevano a maestri di democrazia e pretendevano di impartire lezioni agli americani.
Sebbene considerasse lo sciovinismo lo stadio supremo della stupidità, Dovlatov ha scoperto nell'emigrazione l'"orgoglio nazionale", scaturito non solo dalla nostalgia della patria, ma soprattutto dall'idea della contraddittoria unità della cultura russa, al di là delle mutilazioni che le aveva inflitto il surreale realismo sovietico. Dovlatov, infatti, si compiaceva dei successi occidentali di due personalità agli antipodi come lo "spaventoso" Limonov (lo scrittore teppista, attualmente capo carismatico del partito nazional-bolscevico) e Brodskij (il principe del secondo rinascimento della poesia russa del XX secolo). Emblema della polifonica unità della cultura russa era Leningrado (una città che ha ripreso il suo nome da ragazza, Pietroburgo), il "centro spirituale" della Russia, una città-despota che combina tra loro "frustrazione" e "mania di grandezza". Nei suoi editoriali, Dovlatov tesse la trama di un fantasmagorico e frammentario racconto che ha per protagonista lo spleen di Leningrado-Pietroburgo, quel senso di irrimediabile perdita grave che accompagna, come un musica struggente, l'assurda marcia dei solitari ("folli poeti e pittori alcolisti").
Posseduto da questo spleen e perennemente sdraiato sul divano, Dovlatov era un ironico Oblomov a New York, intento a discettare di totalitarismo e di libertà. Lo scrittore russo considera d'altra parte New York una città camaleontica, affabile e pericolosa, con un'estetica da "catastrofe ferroviaria" che rammenta le tele dei "cubisti di terz'ordine". Mentre in Urss era solo un ubriacone refrattario, negli Stati Uniti Dovlatov era diventato un dissidente sia perché aveva scoperto che l'America non è la "filiale del paradiso terrestre", sia perché gli emigrati russi reiteravano i riti della mentalità totalitaria (il "potere sovietico" era diventato un'abitudine quotidiana). Dal suo eccentrico e beffardo punto di vista, Dovlatov riesce ad antivedere le sorti della Russia e dell'Occidente oltre le cespugliose sopracciglia di Brenev e il buon senso cinico di Reagan. L'intervento in Afghanistan connotava una "nuova tappa storica" e sanciva il tramonto dei "lupi sovietici" che non riuscivano più a ricondurre la società nel recinto edenico dei dogmi e delle credenze coatte. Dopo l'invasione dell'Afghanistan, la lotta per gli ideali del comunismo non avrebbe avuto più senso e i russi erano destinati a sostituire il materialismo di stato con quello "quotidiano, istantaneo, ordinario", facendo coincidere il businessman con il trafficante. I nuovi russi sarebbero diventati come i vecchi americani, attratti dalle spaventose meraviglie della ricchezza e della sazietà edonista.
Come rileva Dovlatov, i cataclismi principali non sono quelli esteriori (anche se come sempre l'essere umano "muore nella storia" e come sempre i "cretini hanno fortuna"), ma quelli interiori, che possono causare una "caduta antropologica". Secondo Brodskij, comunque, Dovlatov non si è fatto imporre lo "statuto di vittima" e non ha avuto il complesso dell'"esclusività". Dovlatov, perciò, sta vivendo un "trionfo posticipato" e continua a pronunciare davanti alla propria bara il suo "discorso senza motivo", la sua solitaria "denuncia funebre".
Roberto Valle
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