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Ho abbandonato la lettura dopo nemmeno 50 pagine. E' un giallo troppo datato, privo degli elementi necessari a farne un classico.
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"Jelling mantiene il controllo. Gli uomini come lui ricevono lo schiaffo e, se non è il caso o il momento opportuno, non lo restituiscono. Però non bisogna credere che tutto sia finito lì. L'impulso di restituire lo schiaffo è rimasto in loro". A parlare è un tipo di narratore interno che la sa lunga e risponde al nome di Tommaso Berra, professore in psicopatologia; è un particolare testimone della storia e "aiutante" dell'archivista e investigatore Arthur Jelling, alla centrale di polizia di Boston; è colui che, potremmo dire, redige il verbale, perché "il discorso di Jelling, al solito", è "abbastanza confuso"; è, in fin dei conti, una sorta di alter ego di Scerbanenco nel testo.
E la cosa si spiega fin dalla prima pagina: "Ma nella sua vita [di Jelling] non era mai entrato il romanzo, se non di scorcio. Scoperto l'autore del celebre delitto, o archiviata la pratica dell'ultimo processo, egli tornava a casa, tra sua moglie e suo figlio, leggeva il giornale mangiando, leggeva un libro a letto, e la mattina era in ufficio, all'Archivio criminale, come un qualunque impiegato, come il più oscuro degli impiegati, a catalogare interrogatori ed elenchi di referti, o stesure di alibi". E a capo, per rilanciare l'interesse del lettore, si legge: "Chissà che cosa c'è nel cuore degli uomini. Di fuori sembrano una cosa, e di dentro, Dio solo sa che cosa sono". Jelling, infatti, sulla distanza, ci stupisce e ci diverte. Innanzi tutto, non è così confuso e, anzi, teme le astruse macchinazioni, amplificate dalla superficiale scelta di campo di tanti colleghi: "Io non credo, scusate, alle macchinazioni (…) Quasi tutti i delitti sono di una semplicità infantile. Uno va e uccide, cerca di non lasciare tracce e di avere un alibi. Per il resto lascia fare alla Polizia. Ci penserà la Polizia a mettersi subito dalla parte della visuale sbagliata e a non capire più niente di un fatto magari elementare". È una splendida dichiarazione di poetica, alla quale dovrebbero attingere giallisti italiani (e non), dalla pagina allo schermo; è un inno alla semplicità e, forse, un'implicita presa di posizione politica contro la polizia del duce.
Più categorico Pirani, che nella nota in appendice al romanzo, 1941: Scerbanenco e il Giallo in Italia, punta parecchio su questa lettura: "Alla base [dell'America di Scerbanenco] non stanno le fonti letterarie e/o cinematografiche, ma una realtà nazionale, quella offerta dalla polizia fascista". Il rischio, a mio avviso, è di trasformare in antifascista e impegnato un testo che non lo è propriamente, tra l'altro sposando una tendenza tipica di molta cultura italiana più o meno recente e spesa sovente a ridosso del genere giallo, esteso, sublimato, travisato. Di più. La polizia americana poteva anche essere "dalla parte della visuale sbagliata", almeno stando alle cronache (e anche di quelle relative al destino di molti nostri connazionali, da Sacco e Vanzetti in poi, per esempio). Si badi: non si tratta di revisionismo, ma di rispetto del testo, della sua semplicità: un uomo ricco reso cieco da un incidente, una bambola cieca trovata nella clinica dove dovrebbe essere operato, se qualcuno non si ostinasse a minacciare e uccidere i medici che potrebbero ridargli la vista. Una metafora? Forse. Ma non si racconta il finale di un giallo.
Luciano Curreri
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