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Mosche d'inverno. 271 morti in due o tre prose
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Mosche d'inverno. 271 morti in due o tre prose - Eugenio Baroncelli - copertina
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Mosche d'inverno. 271 morti in due o tre prose

Descrizione


La morte come realizzazione perfetta della vita, è la chiave scelta da Baroncelli, in questi fulminanti microracconti, per rievocare le circostanze pratiche e spirituali del trapassare di altrettanti protagonisti della storia, della mente, della cultura, della memoria personale e collettiva. Sono quindi tanatografie, per così dire, o biografie ironiche, colte, capziose, prese da un particolare della vita, come una tela si prende da un lembo, che nel caso è la morte; e anche quando questa è tanto oscura o luminosa quanto un personaggio è stato brillante o opaco, la morte si offre comunque, nel racconto, come un'impossibile chiarificazione. Perché ci interpella, riuscendo a opporre sempre il suo abissale punto interrogativo. Da Agrippa a Mae West, passando per centinaia e centinaia di ombre persistenti nell'immaginazione; schierate per voci: Cari agli dèi, Cuori infranti, Di cosa ?, Di freddo, Di gioia, Di spada, Di un male, Fantasmi, eccetera fino a Vecchi. Ci vengono incontro, sono infatti i morti, pensa Baroncelli, a evocare noi.
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Dettagli

2010
4 novembre 2010
251 p., Brossura
9788838925115

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Cristiano Cant
Recensioni: 5/5

Lo sgambetto di Thanatos lunga la via comunque mai liscia di esistenze particolari, anime sdrucciolanti e precarie fra i tortuosi vicoli del genio. Con che ali vola una mosca d'Inverno? Guaste e stanchissime come un'eccezione priva di documenti alla dogana della regola, comicamente tristi e simili a un tombino lasciato aperto per sbaglio che di colpo ingoia un capolavoro, feroci e ciniche come una falce ostinata che si alza al mattino e punta il dito su un uomo o su una donna, su un cuore, su un polmone, prostata o ghigliottina che sia o il canto improvviso di un incidente. La scelta è a piacere, ovunque vogliate troverete un destino, nuovo e cambiato come le traversie e le mutevolezze la cui somma alla fine è la stessa: il commiato, la nota senza la successiva. Dal cavalier Marino a Edith Sitwell, la sequenza di chicche rincorre brume di fantasmi (esorto come un imperativo a leggere la pagina su Guglielmo Puech), esistenze sorde, limiti e sconforti, ambizioni smaccate o glorie ancora esitanti su se stesse (vedi la magnifica gemma dedicata a Cervantes). Del niente insomma e di un qualcosa, dei soffi e delle grazie, malata agenda aperta sull'ultima frase buona, il saluto, un libro rovesciato alla sua alba, transiti drammatici alla Mandel'štam, ma capaci di siglare un prodigio se in quelle tasche vengono rinvenuti versi senza tempo. Così passano stenti e successi, vicinanze d'anima come stanze oltre le sillabe degli anni, dei secoli, tanto a che serve? Se Pessoa ha bisogno degli occhiali per il viaggio dall'altra parte o la Wood incespica nell'oceano o Cortázar danzi coi suoi gatti al suono delle trombe che attendono o Max Jacob desideri nascondersi anche in quei momenti, ormai nulla importa. Ma quello che resta onora la nostra polvere, la migliora, la ordina, la scuote ancora seppur da nuvole d'assenza. Libro meraviglioso, compendio breve come una lastra sul vasto inaffrontabile. Gioia distillata, l'ultimo sorso in compagnia di sorelle rare e fratelli unici.

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max
Recensioni: 5/5

Ragazzi, questo è un genio! Del sentimento dominante la nostra epoca: la malinconia. Come Robert Burton, con variazioni.

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Cheletta
Recensioni: 4/5

Necrologi poetici.

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Voce della critica

Più paradossale dell'impresa di scrivere biografie c'è solo la pretesa di possederne una. Eugenio Baroncelli ha fatto la sua scelta: ha affinato fino al virtuosismo l'arte della prima, e ha rinunciato con altrettanto impegno alla seconda. Dal laconico risvolto di copertina affiorano appena i tratti di un autentico outsider: una vita in provincia (a Ravenna), l'esordio tardivo, a più di sessant'anni, con l'ormai introvabile Outfolio. Storie scivolate da un quaderno durante un trasloco (Manni, 2005), il rilancio da parte di Sellerio, che gli ha pubblicato a distanza di due anni altrettanti libri splendidamente inattuali, nel 2008 Libro di candele. 267 vite in due o tre pose e pochi mesi fa Mosche d'inverno. 271 morti in due o tre pose. Per trovare, se non notizie, almeno qualche indizio supplementare su un autore che ha scelto di dissimulare la propria vita nelle vite (e nelle morti) degli altri, conviene rivolgersi a Mosche d'inverno e alle istantanee brucianti e perfette che in poche righe, al massimo una pagina, fissano gli ultimi istanti di una variegata galleria di spettri: imperatori bizantini riemersi da nebulose memorie scolastiche, scrittori celeberrimi e oscuri artefici di un solo libro, mistiche e guerrieri, filosofi e scienziati, attrici e pistoleri, chiamati alla ribalta secondo l'imparzialità dell'ordine alfabetico e con l'ironico rigore tassonomico che li cataloga in capitoli intitolati ciascuno a una causa di morte (Cari agli dei, Cuori infranti, Di cosa?, Di freddo, Di gioia, Di spada, Di un male, ecc.). Che cosa ci racconta, del suo autore, questo pantheon promiscuo ma solo apparentemente casuale? Che Baroncelli coltiva, come Jorge Luis Borges, un minuzioso furore enciclopedico e la propensione a identificare l'universo con la biblioteca. Che possiede, come l'insonne Emil Cioran e Nicolàs Gòmez Dàvila, "il genio della brevità". Che sa, come quest'ultimo, che ormai non si può scrivere se non "in margine a un testo implicito". E che, nel suo caso, il racconto della morte è la glossa in margine a quel testo implicito che sulla sua soglia estrema si rivela essere la vita. Baroncelli è uno scrittore minimo, ma non minimalista. Scrive poco, e sul quel poco si accanisce con le armi dello stile, ma nutre ambizioni quasi metafisiche, seppure temperate da un ironico understatement. Le sue "tanatografie" non nascono solo dall'erudizione, dal gusto della citazione colta o della clausola tagliente (una per tutte, in morte di Osip Mandel'štam: "Muore in un lager di transito, come si addice a chi è di questo mondo"); nascondono una scommessa sulla perennità della memoria e un gioco di specchi in cui l'uno si confonde col molteplice. Che racconti di Migduel de Cervantes o di Harold Robbins, di Jacques Anquetil o di Giordano Bruno, di Isadora Duncan o di Walter Benjamin, Baroncelli "squadra" i suoi soggetti come un pittore squadra il foglio prima di cominciare a disegnare: due linee parallele, due linee perpendicolari, come nel celebre quadro di Giulio Paolini di cui Italo Calvino ha scritto che è "il quadro che contiene tutti i quadri", "totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che implica tutto il dipingibile". A Baroncelli basta la stessa manciata di tratti – un vizio, un'ossessione, una fatalità, un capriccio – per ottenere lo stesso effetto: una singola morte contiene tutte le morti, passate e future, in una vertigine temporale e analogica in cui Johann Joachim Winckelmann agonizzante "ha gli anni di Calamity Jane e il destino di Pier Paolo Pasolini" e Ippolito Nievo "senza volerlo fa la fine Hart Crane" – "perché in fondo le cose che capitano a un uomo capitano a tutti" e la morte è indubitabilmente una di queste. Ma dopo aver squadrato la vita e la morte, Baroncelli le inquadra: non a caso sia questo libro che il precedente parlano nel sottotitolo di pose. Sebbene il suo stile, dove le immagini si sciolgono immediatamente in musica, rifugga il mimetismo meccanico della fotografia, Baroncelli osserva i suoi soggetti come un fotografo in agguato dietro il minuscolo foro dell'obiettivo. Intento a cogliere, in ciascun ritratto, il dettaglio laterale o la ferita segreta che Roland Barthes ha chiamato il punctum e che costituisce di ogni singolo individuo "il supplemento intrattabile della verità". Così i suoi morituri fermati per sempre nell'atto del morire sono contemporaneamente se stessi e tutti gli altri, in una rete di corrispondenze, riprese ed echi interni che solo una lettura continuata permette di cogliere e che svela la natura, più che di enciclopedia, di smisurata preghiera laica del libro. E in mezzo a loro anche l'autore finisce per rifrangersi in uno, nessuno e centomila, avverando così il proprio oroscopo di scrittore che lui stesso ha tracciato in una pagina di Outfolio: "Da ragazzo, quando non ero nessuno, sognavo di essere qualcuno. Più avanti, quando ero stanco di essere qualcuno, sognavo di essere un altro. Quando ne avevo abbastanza di essere un altro, sognavo di ritornare nessuno. Adesso sogno di non svegliarmi più". Beatrice Manetti

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Conosci l'autore

Eugenio Baroncelli

1944, Rimini

Nato a Rimini, vive a Ravenna. Ha insegnato italiano e latino nei licei e si è alungo occupato di critica e teoria del cinema. Tra le sue opere Outfolio. Storiette scivolate dal quaderno durante un trasloco (2005), Libro di candele. 267 vite in due o tre pose (2008), Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose (2011, Premio Supermondello e Piero Chiara), Falene. 237 vite quasi perfette (2012) e Pagine bianche. 55 libri che non ho scritto (2013).

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