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L'ebreo Odessita silente, schivo, riflessivo, amante del silenzio e non molto prolifico nella sua opera, ma autore di almeno un libro immortale come L'Armata a cavallo. L'uomo che ricordava il cielo della Russia scrivendo: "L'ultimo lembo di azzurro l'ho visto nel 1924, dopo il cielo si è ridotto a un immenso catino sporco". Fra libera biografia e testimonianza comunque attenta (Maccari è onesto già nella prefazione), ci troviamo negli anni caldi della Rivoluzione, e sangue e lotta, sventure e soffiate cavalcano quel tempo nella loro tumultuosa coincidenza. L'ombra di Stalin è incombente, ma con essa anche quella amichevole di Gorky, quasi il tutore di Babel, l'uomo che incoraggerà la sua voce consigliandogli di andare fra la gente e studiarla, se davvero voleva scrivere col cuore. E quando il grande romanziere morirà nel '36 subito sarà certezza per Isaak che da lì a non molto verranno a cercarlo. Gli restano quattro anni, sarà giustiziato per spionaggio. Ma nel frattempo avrà avuto la stima dei più grandi intellettuali del proprio tempo: Drieu La Rochelle, la Berberova, Gide, Erenburg. Nel libro tra l'altro si ricorda il congresso antifascista del '35 a Parigi dove tutti facevano a gara per avvicinarlo e conoscerlo (lui che era giunto in realtà all'ultimo momento con un passaporto creato in due giorni) e dove rimarranno famose le svelte e decise parole di Pasternak sulla differenza fra città e campagna e sul fatto che solo quest'ultima consentisse il richiamo della poesia: "Cercano la poesia, la cercano dappertutto...e alla fine la trovano in un filo d'erba". Il libro è un alternarsi di piccoli paragrafi dove possono darsi il cambio stralci di lettere, passaggi d'infanzia, abitudini personali, esperienze varie. Ha l'andamento di un corale sofferto, ed è in definitiva il tragitto di una vita nel grande quadro sociale che la avvolse, uno sfondo di errori e insieme di grandezza. Politica e letteratura sono spesso nemiche giurate. Ma vince la seconda comunque.
Giovanni Maccari ha scritto un saggio sulla "vita romanzesca" di Isaak Babel'; Gli occhiali sul naso è il titolo del libro nel quale ricostruisce gli "anni tempestosi" dello scrittore sovietico di origine ebrea nato nel 1894 a Odessa e morto nel 1940 in un lager. In questo suo "racconto sostanzialmente veritiero e al tempo stesso inaffidabile" l'autore ripercorre le vicende umane di Babel' dall'arresto fino alla sua morte; con flashback ritorna al "brusio che si leva dall'imponente sfondo su cui si collocano anche Gorki e Pasternak, Trotsky e Ilja Ehrenburg, Majakovskij e Esenin, Bulgakov ed Eisenstein, Malraux e Gide, Mandel'stam e Marina Cvetaeva" e in cui trovano posto anche "miriade di contadine e soldati crudeli, kolchosiani e solidi ingegneri, funzionari di partito e poeti romantici o proletari, amanti, paesaggi immensi e puledri al pascolo" che popolano la leggenda e l'opera di uno dei massimi prosatori russi che visse nell'epoca di Stalin. Come lo stesso Maccari rileva, Babel' "non scrisse molto e la sua scarsa alacrità era forse dovuta più all'impossibilità di restare impuro e innocente come nei suoi capolavori, che al dissenso attivo verso il Realismo socialista". Queste "enigmatiche ambiguità" sulla vita di uno dei maestri del racconto breve sono alcune delle "profondità che il libro intende scandagliare" nella consapevolezza che, come ebbe a dire Natalia la prima figlia dello scrittore, "ricostruire una biografia documentata di suo padre non è un compito facile; questo per ovvi motivi, date le circostanze e i tempi in cui ha vissuto, ma anche perché in fondo non era un uomo lineare".
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