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"Nell'immaginario […] comune, la parola 'apocalisse' evoca più distruzione che guarigione, più catastrofe che salvezza, cosicché quest'ultima assume, per lo più, l'aspetto di puro scampo. La sussistenza del mondo 'così com'è', che per la speranza apocalittica era apparsa un'inaccettabile forma di rassegnazione, rischia, ora, di apparire conseguimento supremo. Quanto all'inizio sembrava poco, alla fine appare molto" (Piero Stefani, "L'Apocalisse", 2008, p. 118). Il ribaltamento semantico del concetto d'apocalisse non sorge dal nulla: gli Ebrei tornati dall'esilio di Babilonia cominciarono a ricostruire il tempio e nel 520 i profeti Aggeo e Zaccaria convinsero il governatore Zorobabele e il sommo sacerdote Giosuè che, al termine della nuova edificazione, si sarebbero realizzate l'era messianica e la salvezza escatologica. I portavoce di JHWH non erano mai giunti a predizioni così precise e tanto rilevanti per le attese israelite. Come testimoniato nei Libri di Esdra e Neemia, invece non capitò alcunché, e di conseguenza il profetismo ebraico scomparve e fu rimpiazzato, a partire proprio dal Deutero-Zaccaria, con la sapienza apocalittica: una panoramica d'insieme, globale e non più locale, sul progetto divino, sulle sue tappe o fasi storiche e sul suo fine e non sulla sua fine. Ma durante il regno di Antioco IV Epifane, sovrano seleucide dal 175 al 164 a.C., scoppiò una rivolta giudaica a cui Antioco reagì con cruenza. Il resoconto si trova nei due Libri dei Maccabei e il Secondo è fondamentale per l'intera successiva dottrina religiosa dell'occidente. Tra il resto, vi si afferma che la preghiera reca aiuto ai fedeli defunti (12, 42-45) e che esiste un aldilà pure per castigare i peccatori (7, 14-36). In questo modo s'introdussero nella spiritualità prima ebraica e poi cristiana due concetti decisivi: la condizione ultraterrena del Purgatorio e un Giudizio universale con esito "manicheisticamente" dualista, dunque anche punitivo-vendicativo: cf. Nocke, "Escatologia", par. 2.5.2., "Giustizia per i martiri (2 Mac)".
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