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Dettagli

6
1990
1 gennaio 1990
348 p.
9788842026365

Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1985)
recensione di Salvati, M., L'Indice 1986, n. 1

Giorgio Ruffolo è membro della direzione del Partito socialista italiano. E presidente della commissione finanza e tesoro della camera. Ha fondato e dirige il CER, uno dei più influenti istituti italiani di ricerca economica. In passato è stato segretario della programmazione economica, e, più recentemente, deputato al parlamento europeo. Politico, grand commis "a tempo definito", organizzatore di ricerca, studioso, Giorgio Ruffolo è uno dei pochi grandi mediatori politico-culturali di cui dispone il nostro paese. Sia loro resa lode, perché il loro compito è importante e sovente misconosciuto. Non sono divulgatori, anche se divulgano; non sono "esperti", anche se talora ne svolgono la funzione: divulgazione ed expertise implicano un passaggio semplice da una disciplina scientifica o tecnica ad una sua elucidazione o ad una sua applicazione su commessa. Più o meno bene, chiunque di noi può svolgere questi ruoli. Ma pochissimi tra noi hanno la passione politica, la cultura, il bagaglio di conoscenze, la posizione istituzionale, il reticolo di audiences, che sono necessari al mestiere di mediatore politico-culturale. I mediatori non divulgano, scelgono. Non applicano, propongono linee guida per eventuali applicazioni. Non traducono, tematizzano. Sono criticati da tutte le parti: dai politici, perché non sono politici abbastanza. Dagli esperti di singole discipline, perché - di - solito - non ne dominano alcuna sino alla frontiera. Dai burocrati e dagli amministratori, perché la loro devozione professionale non è esclusiva. La critica non coglie nel segno, poiché è proprio la limitata specializzazione funzionale, e invece l'ottima integrazione di funzioni diverse - ognuna di esse controllata solo in modo soddisfacente - a fare dei mediatori quello che sono: microprocessori delicati e influenti - e troppo scarsi, purtroppo - inseriti nelle giunture tra gli ambiti funzionali e culturali eterogenei di cui si compone la nostra società.
"La qualità sociale" è dunque il messaggio di un grande mediatore: un messaggio alto e commovente a politici e uomini di cultura. Si compone di due parti, di lunghezza pressapoco equivalente. La prima, analitica e critica insieme, espone le ragioni della crisi (o della nuova... "grande trasformazione") e ne confuta le risposte liberiste e neo autoritarie. La seconda, ancora analitica ma prevalentemente propositiva, argomenta la risposta social-liberale: la versione "continentale" - e in questo mutamento di "versione" Si esprimono profonde differenze culturali - della risposta lib-lab d'oltre Manica.
II messaggio non è sintetizzabile, perché è già sintesi di grande compattezza. I fili più resistenti e sottili dell'analisi filosofica, economica, sociologica e politologica sono intrecciati in un disegno ricco, complesso e convincente; ma le linee essenziali di questo disegno - ciò che un recensore potrebbe rendere - non sono nuove, e il recensore farebbe ingiustizia al libro, e non aiuterebbe il lettore, se tornasse a riesporle. II miscuglio di colori è forse più personale, se per colori intendiamo i grandi valori sulla base dei quali un ordinamento sociale è valutato: ai valori liberali ed egualitario-solidaristici della tradizione democratica occidentale si aggiunge - e questo mi ha colpito perché per formazione culturale e sensibilità politica non sono mai stato in grado di sentirlo sulla pelle - un valore 1/2ecologicoÈ su cui Ruffolo fortemente insiste e che impregna sia la parte analitica, sia la parte propositiva: il mercato - e anche la pianificazione centralizzata - non rispetta questo valore. Esso va invece rispettato, e tenuto nello stesso conto della libertà e della solidarietà-eguaglianza.
II contributo più personale - val la pena ripeterlo - consiste però nella sintesi, nella mediazione, nella tematizzazione: nel trasmettere ai politici il messaggio profondo di Karl Polanyi e di Fred Hirsch, e nel criticare a loro uso l'insidioso scetticismo di Niklas Luhmann. E nello stesso tempo nel trasmettere agli esperti delle varie discipline - spero proprio che non si schermino dietro mancati approfondimenti e lievi e occasionali imprecisioni - un'idea forza: che i loro sforzi disciplinari sono politicamente rilevanti, e che però vanno composti in un paziente lavoro di aggiustamento e di incastro. È l'insieme orientato che diventa alta politica. Dunque, nessuna sintesi della sintesi. Tre aperture di discussione, invece; tre cose che ne "La Qualità Sociale" non ci sono, e che avrei desiderato ci fossero, o, meglio, sulle quali desidererei che Ruffolo tornasse. Tre cose legate, come si vedrà, tra le dozzine di spunti possibili.
Se c'è un ingrediente mancante o debole nel fitto mosaico della prima parte de "La qualità sociale" questo è forse il tassello della storia. Certo: Karl Polanyi è l'eroe eponimo della trattazione, come doveva essere; e le onde lunghe dello sviluppo capitalistico sono ricordate attraverso gli studi recenti di Angus Maddison. Ma poi l'analisi procede subito ad esaminare le difficoltà odierne dei due grandi meccanismi regolatori - mercato e stato - attraverso un'esposizione critica delle migliori interpretazioni sociologiche, economiche e politologiche oggi disponibili. Si tratta però di interpretazioni e discipline tipicamente orizzontali, che poco ci dicono su come la crisi sia cresciuta dalla non-crisi di ieri, e come a sua volta l'età dell'oro (o la belle époque) di ieri fosse emersa dalla crisi degli anni '30. In particolare, all'intricato meccanismo economico-politico-sociale che ha retto la belle époque degli anni '50 e '60 vengono dedicate due pagine, brillanti e leggere (14 e 15): troppo poco. Troppo poco non per gusto cronachistico di sapere come sono andate le cose. Ma perché la mancata insistenza sugli effettivi decorsi storici, sulla formazione, il disfacimento, la rinascita di sistemi di regolazione socio-economici temporalmente e spazialmente precisati indebolisce la parte analitico-concreta del messaggio, e per conseguenza ne esaspera la parte critico-ideologica. Contro quest'ultima - anche nelle sue tensioni utopiche - non ho proprio niente, e lo si vedrà fra poco. Ma qualcosa di più si poteva e si doveva dire.
Si doveva dire qualcosa di più per vari motivi. Anzitutto perché qualcosa di più c'è da dire: in un libro sulla crisi - e in un libro di sintesi - la mancanza di riferimenti, non dico agli storici 1/2localiÈ, ma agli storici generalisti, ai pittori di affreschi sulle fasi di crescita e declino nello sviluppo capitalistico, a Rostow, Kindleberger, Kuznets, Boyer, Wallerstein, è una lacuna. Poi perché era giusto lo si dicesse, ai fine di bilanciare l'architettura della trattazione. II quadro storico d'insieme è della massima importanza concettuale: altrimenti la "storia" emerge come un insieme eterogeneo di "obiter dicta" che introducono o inframmezzano tematiche viste sotto l'angolatura di discorsi disciplinari o strettamente politici. Un po' di storia dello stato di benessere, quando si affronta questo tema; un po' di storia delle relazioni economiche internazionali quando si parla della loro crisi; un po' di storia delle relazioni industriali, quando si introduce la politica dei redditi. Questo è distorsivo, naturalmente: la crisi è una crisi d'insieme. In terzo luogo qualcosa di più si doveva dire per motivi, diciamo così, di opportunità culturale e divulgativa. Se non capisco male, una buona fetta dei lettori cui questo libro è destinato è costituita di persone che col marxismo in qualche modo hanno bazzicato in un passato più o meno recente. Perché rendergli inutilmente difficile l'assorbimento del messaggio? E quale modo migliore di facilitarlo che quello di trasmetterlo mediante un impianto storico? Il quarto motivo l'ho già accennato - l'assenza di dimensione storica sbilancia il messaggio in direzione critico-ideologico-utopica - e ci vengo subito.
La seconda parte del libro - al di là della ricca trattazione analitica che in esso prosegue - argomenta tre grandi indirizzi di riforma (il socialismo liberale, contro il liberalismo autoritario di oggi): a) dalla "crescita" allo sviluppo sociale: equilibrio ecologico, equità distributiva, iniziativa sociale, nel contesto di una ritrovata efficienza economica; b) differenziazione e articolazione democratica del sistema istituzionale: n‚ mercatizzazione dello stato, n‚ statizzazione del mercato; c) riorientamento culturale verso una società socievole: compromesso civile, equilibrato e mobile dei grandi motivi ispiratori della tradizione progressista europea, liberalismo e socialismo.
A chi sono affidati questi indirizzi? Quali sono le gambe sulle quali possono marciare? Per quei motivi di opportunità culturale-divulgativa di cui dicevo, forse Ruffolo avrebbe fatto bene a ribadire e a giustificare più di quanto fa (pp. 291 ss.) le ragioni di una così netta cesura tra il ragionamento sui valori e sugli indirizzi politici desiderati - di cui parla molto - , il ragionamento sulle tendenze effettive della società - di cui parla poco - , e il ragionamento sugli strumenti politico-culturali da utilizzare per raggiungere quei valori-indirizzi facendo leva su (alcune di) quelle tendenze - cosa di cui non parla affatto. Forse, invece, ha fatto bene così: basta con queste distinzioni elementari che la crisi degli storicismi dovrebbe aver stabilito da tempo!
Al di là di ogni dubbia ragione di opportunità, tuttavia, rimane il fatto che la parte propositiva de "La qualità sociale" si colloca in uno spazio non ben definito: è abbastanza accessibile da poter essere intesa come programma politico, sia pure di orientamento e di lunghissimo periodo; e però abbastanza radicale e traumatica da poter essere rigettata, dagli scettici o da chi non ne condivide i principi, come un sogno utopico. Chiaramente è la prima alternativa quella più appropriata, e non c'è dubbio che gran parte dei lettori coglieranno in questo senso il messaggio del libro. Vi sono però discontinuità di tono e riferimenti che possono far sorgere difficoltà di collocazione. Vi sono momenti di stile alto, quasi profetico, visioni che chiaramente rimandano a un futuro della convivenza sociale assai lontano dal meschino presente; vi sono invece proposte spicciole di riforma del sistema fiscale o della disciplina dei mass-media che potrebbero essere benissimo avanzate domani in parlamento.
A Ruffolo piacciono le proposte di Fuà-Rosini su una maggiore percentuale di prelievo a favore delle imposte indirette (pp. 232 ss.). Benissimo, se ne può discutere. Ma come non accorgersi che queste proposte riguardano un livello di intervento politico profondamente diverso da quello a cui gran parte del libro è tenuto? Un livello degnissimo, anzi necessario; ma per potervi accedere occorre cambiare registro, introdurre innumerevoli considerazioni di opportunità, innumerevoli riferimenti ad una concreta realtà storicosociale. Considerazioni e riferimenti del tutto (e giustamente) assenti ne "La qualità sociale".
Ancora. Inserita nelle pagine finali del libro, pagine di grande bellezza e slancio verso il futuro, troviamo la frase 1/2in una società più colta...; in una società pluralistica, non c'è più ragione di temere che, attraverso la scuola, la Chiesa o il Capitalismo manomettano la libertà dei cittadini (p. 327). Al che un normale, democratico, non-trinariciuto nostro concittadino di sinistra ovviamente ritorcerebbe: La Chiesa e il Capitalismo forse no; ma certamente CL, il papa, Berlusconi, sì. Al di là del pregiudizio (possibile), questa ritorsione è causata da uno sbalzo nel tono del discorso; o meglio da una mancata segnalazione che qualsiasi riferimento ad una concreta situazione storica è da considerarsi improprio.
Dunque, non per dubbi motivi di opportunità, ma per una reale esigenza di chiarezza, quei tre tipi di ragionamento di cui dicevo più sopra andavano ben distinti e pedantescamente chiariti. Così facendo, forse, Ruffolo avrebbe avvertito che il ragionamento sulle tendenze effettive del nostro sistema richiedeva una curvatura storica più pronunciata. E, forse, avrebbe distinto più esplicitamente i livelli a cui si può parlare di una società desiderabile: da un livello di programma politico per domani; a un livello di indirizzo di lunghissimo periodo, di "utopia intermedia", che è quello poi in cui si colloca la 1/2società socievoleÈ; a un livello, infine, di utopia più radicale.
Visto che di "gambe" non si parla - che i ragionamenti delle tendenze effettive e sulle strategie per influire su di esse sono staccati dal ragionamento sulla società desiderabile - perché infatti non essere più radicali? Perché non accennare almeno, in una sezione del libro, a quei caratteri di fondo della nostra organizzazione sociale che ostacolano il raggiungimento dei valori della tradizione democratica occidentale? Perché non parlare in modo radicale della divisione tecnica del lavoro, della complessità organizzativa e dei ruoli parcellizzati che questa impone, come ostacolo ad un pieno sviluppo di personalità intere e polivalenti? Perché non parlare della famiglia, come ostacolo insormontabile ad una reale uguaglianza di 1/2condizioni di partenzaÈ? Su scala assai minore, ma colla stessa radicalità (e purtroppo, lo stesso insuccesso), i kibbutzim sono stati un esperimento sociale teoricamente altrettanto significativo del socialismo. Questo livello radicale del discorso utopico sarebbe stato importante di per sé poiché, da un punto di vista teorico, paga sempre essere radicali. Ma soprattutto sarebbe stato indispensabile per una critica ad altre utopie radicali, ed in particolare quella della tradizione marxista-leninista. Ruffolo tende a dare questa critica come scontata, e questo è più che comprensibile di fronte ai risultati del socialismo reale. Comprensibile, ma sbagliato. Questa critica non la si faceva quando il clima di opinione era favorevole al socialismo. All'improvviso, o quasi, il clima è mutato, e la critica non la si fa perché non sembra più necessaria. È invece sempre necessaria, e non perché nel Pci italiano si discuta ancora di "fuoriuscita" (anche qui troppo poco, e con scarsa radicalità teorica), ma perché l'utopia socialista è una grande utopia, scontrandosi colla quale possono uscire i lineamenti profondi di una società migliore.
L'Italia non c'entra, naturalmente. Per parlare dell'Italia occorreva anzitutto definire un programma politico per domani o dopodomani, un programma "minimo", come si diceva una volta. E poi occorreva soprattutto parlare di "gambe", dei partiti politici, dei gruppi di interesse, delle forze sociali sottostanti, sulle quali il programma può marciare. Difficilmente, però, si può rimproverare a Ruffolo di non parlarne: i suoi articoli su "La Repubblica" o in altre sedi non parlano che di questo. C'è solo da augurarsi che presto o tardi Ruffolo li raccolga e li reimposti in un lavoro della stessa ampiezza e dello stesso slancio di "La qualità sociale".


recensione di Bellofiore, R., L'Indice 1986, n. 1

Fredo, protagonista di un romanzo americano dell'inizio degli anni settanta, si interroga sulla bruttezza della tecnologia moderna, nonostante il fatto che tale bruttezza non sia insita n‚ nella tecnologia in sé, n‚ nei suoi materiali n‚ in chi la produce e la usa. Piuttosto, conclude Fredo, essa sta nel rapporto tra chi produce la tecnologia e le cose prodotte: chi crea la tecnologia non sente con essa alcun particolare senso di identità. Ciò che manca è la Qualità, l'assenza di separazione tra se stessi e il lavoro, l'armonia tra valori umani e necessità tecnologiche.
Ad un nodo di problemi non molto dissimile approda Giorgio Ruffolo nel suo libro "La qualità sociale". La situazione attuale, caratterizzata dalla crisi della crescita, meramente quantitativa e mercantile. L'alternativa che propone Ruffolo è un progetto riformistico finalizzato allo sviluppo: una riforma del capitalismo che mantenga l'equilibrio ecologico; che riduca l'area della produzione di merci a favore di attività relazionali dirette, della diffusione di beni culturali e di informazione, della liberazione del tempo e della demercifcazione del lavoro. Una proposta, quindi, di rispondere alla domanda sociale di maggiore equità e partecipazione dal lato dell'offerta politica, aumentandone le prestazioni. Una opzione di qualità, che rivendica un fondamento non solo razionale e scientifico ma anche etico.
Il libro si compone di due parti: nella prima vengono sintetizzate le ragioni della crisi economica e del declino del Welfare State; nella seconda è contenuta la risposta di Ruffolo al disagio attuale (entrambe le parti sono ricche di riferimenti ai dibattiti non solo attuali, in economia e nelle scienze sociali). La crisi è il frutto stesso della prosperità: il benessere materiale è stato ottenuto accrescendo le scarsità naturale, e determinando bisogni insoddisfacibili su scala generale perché posizionali; l'interventismo keynesiano riduce l'assimetria di potere a danno della forza-lavoro, merce che pensa, e porta alla politicizzazione del sistema e alla pretesa di eguaglianza.
Le difficoltà dello Stato del benessere partono di qui, da un sovraccarico di domanda sociale. La risposta della nuova destra si articola nel tentativo di ripristinare il primato del mercato attraverso la recessione e di spoliticizzare la società, riducendo per questa via la complessità sociale. Al neo-liberismo monetarista ed al neo-autoritarismo luhmaniano Ruffolo contrappone un nuovo socialismo liberale. Rifiutando la posizione che interpreta l'arresto della crescita come un accidente temporaneo, così come le interpretazioni catastrofiste, Ruffolo vuole anche contrastare una eventuale, possibile ripresa che rinnova i limiti ecologici, sociali e morali alla crescita meccanizzando la società, cioè adattando gli uomini ai loro oggetti ed i comportamenti agli automatismi richiesti dal sistema.
Il capitalismo dovrebbe essere vincolato in modo da utilizzare tecnologie che aumentino la produttività delle risorse impiegate (materiali di lento consumo, riciclaggio, processi biotecnologici ed informatici). La produzione andrebbe orientata da un intervento programmatorio non solo macroeconomico ma anche selettivo, che si dovrebbe pure far carico di una politica attiva che flessibilizzi l'offerta del lavoro. II tempo di lavoro potrebbe ridursi non in modo generalizzato ma opzionale e variabile, facendo spazio ad un 1/2terzo sistemaÈ di attività che producono e impiegano informazione, servizi sociali, attività simboliche, scientifiche ed espressive. Il libro si conclude con una discussione sulla possibilità di: coniugare efficienza ed eguaglianza (al termine di un serrato confronto con neo-utilitarismo e neo-contrattualismo con la proposta di diffusione della politica nella società, con il suggerimento che lo sviluppo qualitativo sia di stimolo a modificare la personalità umana dal privatismo conformistico all'individualismo socievole.
Un discorso, come si vede, affascinante e di grande respiro (che pure andrebbe qualificato per adattarlo meglio al caso italiano: poco o nulla si dice, per esempio, della rimozione dei vincoli allo sviluppo derivanti dall'attuale collocazione nella divisione internazionale del lavoro, e le proposte di politica industriale sono forzatamente generiche dato il livello di astrazione prescelto). Un discorso, anche, la cui collocazione politica è esplicita: "L'interlocutore ideale di questo libro è la sinistra. Quella dei partiti, certo. Ma, di l| da quella, la grande sinistra, diffusa nelle istituzioni e nella società: quella che esprime una domanda di benessere materiale, sì, ma anche di significato e di solidarietà" (p. 331). Una sinistra che, per citare ancora Ruffolo, dice non solo da dove viene, ma dove va. Resta da chiedersi comunque, della praticabilità di una strategia cosi ambiziosa, oggi Ruffolo sostiene, a ragione, che 1/2a furia di ripetere ritualmente che le idee non contano senza la forza, la sinistra è rimasta senza idee; e rischia di trovarsi senza forzeÈ(p. 333). Pure, non è dato vedere quali siano oggi i soggetti sociali che possano dare carne e sangue al progetto riformista, che quindi rischia di essere un nuovo libro dei sogni (come già la programmazione degli anni sessanta, per la ragione in un certo senso opposta). Il che non vuoi dire che la sinistra non abbia bisogno di un riformismo, sia pure impossibile. In altri termini più che una proposta organica di nuova società, serve probabilmente un insieme selezionato di interventi su punti cruciali del sistema: la prima è necessariamente legata ad una prospettiva di governo, il secondo può essere perseguito anche dall'opposizione, e può, se non altro, aiutare a porre qualche argine alla restaurazione economica e sociale attuale. Per fare andare insieme idee e forze, e riprendere domani i problemi e qualche risposta, di Ruffolo.



recensione di La Malfa, G., L'Indice 1986, n. 1

L'ispirazione politica principale del libro di Giorgio Ruffolo sembra essere quella di fornire la sinistra italiana di un programma credibile ed adeguato rispetto ai problemi della società contemporanea. Ruffolo espressamente trascura le tradizionali questioni ideologiche del superamento del capitalismo, della terza via e così via, e delinea una risposta in positivo rispetto ai problemi attuali della società italiana e più in generale delle società industriali dell'occidente.
Lo sforzo merita attenzione. Ruffolo sembra persuaso che le tradizionali impostazioni della sinistra sul capitalismo e la ricerca di una alternativa ad esso, oggi non conducano più da nessuna parte. I problemi sono altri - la qualità della vita, l'ambiente, l'istruzione, la partecipazione collettiva alle decisioni - ed è su di essi che la sinistra deve misurarsi. Nello stesso tempo egli sembra temere che nello sforzo di allontanarsi dal suo tradizionale sentiero ideologico, la sinistra socialista e comunista possa cadere nell'eccesso opposto di una scoperta acritica da vecchio modello capitalistico, prekeynesiano e neo-liberalista tutto centrato al ruolo stesso dello stato come equilibratore fra bisogni collettivi e spinte individuali.
A questa distinzione fra due concezioni politiche delle società capitalistiche dell'Occidente serve la lunga e dettagliata prima parte del libro tutta volta a recuperare la definizione di un ruolo positivo dello stato ai fini del raggiungimento della piena occupazione, della tutela dell'ambiente esterno e della qualità della vita, della redistribuzione dei redditi.
"La qualità sociale" è dunque un libro politico, espressione di uno sforzo coraggioso di riflessione. Ciò non significa che il tentativo sia pienamente riuscito. I limiti di esso sono, ad avviso di chi scrive, due, fra loro diversi, ma tali da far perdere almeno in parte vigore all'ispirazione principale del libro.
Il primo è nel fatto che il programma esposto è troppo sommario, ciò non tanto nel senso che esso lascia fuori questioni importanti per le società contemporanee, quanto nel senso che restano fuori dal libro il problema del modo nel quale assicurare sia i traguardi quantitativi, sia gli aspetti qualitativi della società "più socievole" che Ruffolo ha in mente. In realtà, è troppo ampia la discussione dei limiti del neoliberalismo e troppo sommaria l'analisi del modello alternativo che per questo rischia di apparire più un'utopia che una proposta.
L'altro limite riguarda l'assenza di riferimenti alle tradizionali ideologie della sinistra socialista e comunista, al capitalismo ed alla analisi del rapporto fra struttura economica e sovrastruttura politico-sociale. È probabile che Ruffolo abbia desiderio soprattutto di sgombrare il campo da idee che possono apparire residui di concezioni passate. Tuttavia queste concezioni, forse passate, tuttora condizionano il modo di valutare i problemi di forze politiche e di forze sociali che Ruffolo vorrebbe riunire sotto l'insegna di un programma innovatore. Ma se la questione non viene posta esplicitamente, essa permane. Questo del resto è il limite dell'intero dibattito che ha avuto luogo nel Pci e con il Pci negli scorsi mesi. Una forza, come il movimento socialista nelle sue diverse componenti, caratterizzata per oltre cento anni da una certa visione ideologica, non può semplicemente far come se quella concezione non vi fosse mai stata e passare a considerare un diverso programma "concreto". Questa rischia di essere una scorciatoia non praticabile.
Ruffolo fa bene a cercare di offrire nuovi contenuti allo schieramento riformista. Ma l'emergere di nuove idee richiede una piena e matura sistemazione del vecchio patrimonio di idee. Se ciò non avviene, il risultato non potrà essere quella completa rifondazione cui "La qualità sociale" vuol contribuire.



recensione di Chiaromonte, G., L'Indice 1986, n. 1

Un contributo importante alla ricerca e al dibattito, politico e culturale, della sinistra italiana ed europea: questo è, a mio parere, l'ultimo libro di Giorgio Ruffolo. Ma è anche un esempio - mi sia consentita questa notazione che non può essere considerata marginale o secondaria - di come si possa scrivere un libro, tutto intriso di economia e di politica, senza cadere, o far cadere il lettore, nella noia, e senza indulgere a linguaggi oscuri e complicati o, di converso, a trattazioni, fredde e distaccate, di questioni e problemi che pur riguardano la vita e l'avvenire degli uomini. II libro è, infatti, anche una manifestazione di grande passione civile e morale: non spenta, n‚ attenuata dal passare degli anni, e da tante esperienze, spesso amare, che uomini come Giorgio Ruffolo hanno vissuto. Un libro che può costituire incitamento e sollecitazione a non rassegnarsi a mode politiche e culturali correnti e in apparenza dominanti, a non rinunciare alla nostra cultura (alla cultura e alla storia, cioè, della sinistra e del socialismo europei), a verificarla e rinnovarla alla luce di quelle trasformazioni profonde che sono in atto ma che noi vogliamo dominare e volgere a fini di progresso economico e democratico, e di solidarietà umana. Non un libro del "disincanto" o del "riflusso", dunque, come tanti libri e films di questi tempi: Ruffolo non si china sotto l'impeto di un vento che sembra assai forte, e non indugia nemmeno nella compiaciuta e impotente descrizione di un ripiegamento che anch'esso può apparire, a volte, irresistibile e comunque inevitabile. Questo "disincanto", questo "riflusso" è oggi, per una parte assai larga, la conseguenza di frustrazioni derivanti dal fallimento o dall'esaurirsi di speranze ardimentose e radicali, di sogni di palingenesi, di visioni assolutistiche e schematiche della realtà umana e sociale. In verità, Giorgio Ruffolo non ha mai sofferto di questi mali: e così egli, il "riformista", appare oggi più forte e solido di tanti "rivoluzionari" degli anni passati, e più fiducioso nell'avvenire.
La prima parte del libro contiene una critica acuta e puntuale delle correnti di pensiero e delle politiche economiche che fanno capo al cosiddetto neoliberismo. È la parte migliore del lavoro di Ruffolo. E credo che sia profondamente giusto il richiamo a vedere, di questa controffensiva di destra, le ragioni e motivazioni profonde: "la controffensiva liberistica trova una giustificazione reale, e non solo un pretesto ideologico-politico, nella degenerazione burocratico-statalista della democrazia di massa" e "i messaggi teorici e le esperienze pratiche di monetarismo più conseguente non possono essere respinti in blocco con un atteggiamento miope di disdegno ideologico, ma devono essere seriamente meditati e approfonditi, se non si vuole chiudere gli occhi di fronte alla realtà". Questo richiamo non mi sembra inutile. Non credo, infatti, che ci sia piena consapevolezza, nelle forze della sinistra europea, che la difesa e lo sviluppo dello 1/2Stato socialeÈ non possono passare attraverso la difesa e il mantenimento delle posizioni raggiunte (e di tutte le conquiste e garanzie che non reggono al mutare dei tempi e sono anzi da esso aggirate) ma debbono puntare alla riforma dello stesso "Stato sociale" per eliminarne o ridurne inconvenienti, disfunzioni, corporativismi, appesantimenti burocratici, e per conquistare un nuovo sistema di garanzie per i lavoratori e per i cittadini. II richiamo di Ruffolo a capire bene come stanno le cose non diminuisce in nulla la sua forza polemica contro le "idee" e i "valori" della controffensiva liberistica "in un mondo nel quale il perseguimento del puro interesse egoistico... diventasse la sola regola della convivenza, non vi sarebbero più n‚ convivenza, n‚ regole, e il contratto sociale verrebbe dissolto. Se la logica della massimizzazione del vantaggio privato si estendesse alle altre istituzioni della società: alla magistratura alle professioni, alla politica, la società si disgregherebbe. Ma non è ciò che già sta accadendo davanti ai nostri occhi?".
Assai acute e pertinenti sono anche le osservazioni di Ruffolo sulla concezione stessa dello sviluppo, e sul rapporto fra sviluppo, consenso, democrazia. E non vi può essere dubbio che la sinistra europea - di fronte all'avanzamento dei processi di innovazione tecnologica e scientifica, al venir meno di un rapporto 1/2virtuosoÈ fra investimenti, sviluppo e occupazione, alla crisi dello Stato sociale - non è stata in grado, finora, di dare risposte soddisfacenti n‚ sul piano teorico n‚ su quello politico e pratico. Il lavoro di Ruffolo può dare un contributo di idee e di proposte in questa direzione: un contributo senza dubbio importante, ma altrettanto certamente parziale, e bisognoso di altri approfondimenti e precisazioni. I punti fermi da cui partire sono proprio quelli sui quali Ruffolo si sofferma: la critica impietosa ma incontrovertibile degli effetti delle politiche liberistiche praticate in alcuni paesi, sugli stessi valori della convivenza umana oltre che sul piano più strettamente economico (molto efficaci mi sono sembrate le pagine critiche che sono dedicate a quello che è successo, in fatto al occupazione, negli ultimi anni negli Stati Uniti d'America) ma anche la polemica aspra contro quelle posizioni ideali e politiche che vedono in un ricorso a varie forme di autoritarismo la via principale per superare le contraddizioni e la crisi attuali, dello sviluppo. "Quanto alla tecnicizzazione del potere - scrive Ruffolo - la pretesa è antica quanto lo è la democrazia. Il governo dei tecnici era già reclamato nell'Atene di Pericle dall'opposizione conservatrice... La pretesa tecnocratica, anche se fondata su una ben più sofisticata analisi funzionalistica, non sfugge ad una contraddizione di fondo. Un potere autolegittimato, e liberato dal disordine della partecipazione, non ha altro riferimento possibile che se stesso, dunque la sua funzione diventa semplicemente, in assenza di un obiettivo esterno, quello di mantenersi e di autoriprodursi. Allora, anche nel caso più asettico di una tecnocrazia pura, tutta identificata nella sua funzione, senza interessi privati in atti d'ufficio, la tecnostruttura diventa il fine della tecnostruttura... La tecnicizzazione degenera allora in pura e semplice burocratizzazione". Come è noto, le tendenze che spingono all'autoritarismo sono oggi di varia natura e ispirazione ideale: e la polemica di Ruffolo mi è sembrata particolarmente penetrante nei confronti delle teorie e posizioni di Luhman.
Questi sono veramente punti fermi per una qualsiasi riflessione e ricerca della sinistra europea. È nostra convinzione, tuttavia, che la critica alle correnti e alle politiche neoliberistiche avrebbero acquistato maggiore forza se Ruffolo avesse affrontato, in modo più compiuto di quanto non abbia fatto, la questione dei paesi arretrati e in via di sviluppo. Tale questione ci sembra centrale per molti aspetti: non solo per meglio precisare la critica alle idee, ai valori, alle politiche del neoliberismo ma anche per delineare (in relazione alla battaglia per un nuovo ordine economico internazionale) le stesse politiche di sviluppo nei paesi industriali avanzati. Da un punto di vista ancora più generale, un esame più attento delle cause e della sostanza attuale dello squilibrio Nord-Sud su scala mondiale porterebbe, a mio parere, alla critica non soltanto delle politiche neoliberistiche ma del funzionamento stesso del sistema capitalistico mondiale, di alcuni suoi principi essenziali, delle sue strutture finanziarie. Nelle elaborazioni del Pci di alcuni anni fa, noi giungemmo ad alcune conclusioni analoghe a quelle di Ruffolo a proposito del nuovo tipo di sviluppo e di una diversa scala di consumi e di valori. Giungemmo a proclamare la necessità di una politica di austerità nei paesi industrializzati (Ruffolo preferisce la parola "sobrietà") sulla base di un'analisi del significato e della portata di quel profondo sconvolgimento degli assetti mondiali che è stato ed è il processo di liberazione dei popoli e dei paesi ex coloniali.
Proprio perché siamo convinti di questo, non riusciamo a sfuggire, di fronte a un libro pur così interessante e vivo come quello di Ruffolo, alla sensazione di una qualche angustia e ristrettezza in un ragionamento che ci appare in verità un po' ristretto, e circoscritto, tutto sommato, a una piccola parte del mondo, anche se decisiva per le sorti dell'intera umanità. E questo indebolisce, a nostro parere, la stessa argomentazione relativa al tipo di sviluppo che è necessario promuovere nei paesi industrializzati dell'Occidente. La qualità nuova dello sviluppo nei nostri paesi non può non essere correlata anche alle esigenze che nei paesi del terzo mondo si pongono in relazione ai loro obiettivi di sviluppo, autonomamente scelti. E, d'altra parte, l'avvio di una seria politica di cooperazione internazionale fra il Nord e il Sud del mondo può portare a un allargamento, anche in termini quantitativi, delle stesse possibilità di sviluppo dei paesi avanzati, cioè a forzarne i limiti e vincoli attuali. Un punto di attacco per instaurare un nuovo rapporto Nord-Sud è oggi quello dell'indebitamento mostruoso e impagabile di tantissimi paesi in via di sviluppo: e mi sembrerebbe straordinariamente importante una convergenza di posizioni fra tutte le forze della sinistra europea sui modi come affrontare, appunto, questa questione del debito.
Ma un altro elemento su cui far leva per forzare gli attuali limiti e vincoli allo sviluppo è quello relativo alla cooperazione, anzi all'integrazione, economica e politica, dei paesi dell'Europa occidentale. E qui mi sembra di cogliere un altro punto di debolezza, o almeno di non sufficiente approfondimento, nel ragionamento di Ruffolo.
Intendiamoci: di questo ragionamento va apprezzato un aspetto che è fondamentale. Nella discussione che da anni è in atto fra uomini della sinistra europea c'è stata sempre, nella sostanza, l'accettazione di una previsione di ritmi di sviluppo assai contenuti per i singoli paesi e per l'Europa occidentale nel suo complesso. Una tale previsione prudenziale dello sviluppo possibile (che teneva e tiene conto di una serie di vincoli non eludibili a livello internazionale e all'interno di ciascun paese) porta, se si vogliono mantenere fermi i principi della giustizia sociale e della democrazia, a conseguenze assai pesanti, in termini di compressione di bisogni o anche solo di aspettative di grandi masse lavoratrici e popolari, ma anche e soprattutto in relazione ai problemi della disoccupazione: nella sostanza, a una situazione assai difficile, e al limite a una sconfitta per la sinistra europea. Bisogna dare atto a Ruffolo che egli va al di là di questo ragionamento, e pone con grande forza il problema di come costruire le basi per uno sviluppo nuovo, di qualità più elevata, e per una "buona occupazione".
La mia impressione è però che la seconda parte del libro non riesca a rispondere agli interrogativi immediati e alle questioni urgenti che pure la sinistra europea ha di fronte, e a cui non è stata in grado, finora, di dare una risposta. Lo stesso ragionamento di Ruffolo, che nella prima parte del libro era apparso così limpido ed efficace, si affievolisce un poco nella seconda: e le argomentazioni, pur di grande rilievo e portata (anche culturale e morale), rischiano di apparire perfino astratte, e in qualche punto velleitarie e avveniristiche, se non corroborate da proposte concrete e fattibili di interventi e politiche immediate. Le stesse proposte per un nuovo sviluppo nei paesi dell'Europa occidentale acquisterebbero una forza ben più grande se correlate, da una parte, alla costruzione di un nuovo ordine economico internazionale e, dall'altra, a una effettiva integrazione economica e politica dei paesi della Cee. Dico di più: queste due questioni appaiono, sempre più, come obiettivi di fondo dell'azione politica e culturale della sinistra europea, anche per sconfiggere (sul campo: cioè sul piano delle concrete realizzazioni in materia di sviluppo, occupazione, progresso tecnologico e scientifico, democrazia e partecipazione) la sfida superba del neoliberismo e dei suoi falsi valori, e un'offensiva che tende a colpire a morte le conquiste sociali e democratiche realizzate durante decenni e decenni in Europa, cioè la cultura e la storia stessa del socialismo e dei movimenti progressisti, e le idee e i valori congiunti della libertà dell'individuo e della solidarietà umana. Tutte le indicazioni che Ruffolo avanza per un nuovo sviluppo sono, d'altra parte, assai difficili a realizzare, o anche soltanto a impostare, se visti e affrontati paese per paese, al di fuori cioè di una azione coordinata fra le vane forze della sinistra europea. Questa mi sembra, in verità una conclusione che non è possibile eludere: la dimensione europea di una politica per un nuovo sviluppo, come fatto di fondo per evitare l'emarginazione dell'Europa e per fare assolvere questi nostri paesi europeo-occidentali una funzione, alla quale essi possono e debbono assolvere, per la pace mondiale e per rapporti di collaborazione fra tutti i paesi del mondo. Impostare così le cose sarebbe decisivo anche per quel che riguarda le relazioni fra i movimenti operai progressisti europei e i movimenti di liberazione e democratici del terzo mondo e dei paesi in via di sviluppo.
Qui si potrebbe tornare a discutere sul tema dell'austerità. Esso appare sempre più come parte integrante di qualsiasi discorso sul nuovo sviluppo e sulla sua qualità. Questa notazione vogliamo farla, e non per riandare a una discussione che si svolse alcuni anni fa in relazione a certe nostre affermazioni (una discussione per molti aspetti curiosa, nella quale fummo accusati - e fu accusato in particolare Enrico Berlinguer - di "visione moralistica", e perfino "monacale", dello sviluppo, una visione che non teneva conto dei bisogni crescenti degli uomini, e che propugnava una società e una convivenza civile intrisa di cupezza e di noia): ma per ribadire una concezione dell'austerità, collegata a una lotta, politica ma anche culturale e morale, per una diversa gerarchia dei bisogni e dei consumi, oltre che per una politica di riforme, e quindi per nuovi e più elevati valori, e per una vita più piena. È, forse, questa, una visione astratta di una possibile evoluzione della realtà? O non è, invece, un tentativo di recupero dei valori della solidarietà sociale, e di superamento di quelli del capitalismo e del neoliberismo? In verità, questa visione mi sembra possa avere una base nella stessa situazione attuale, nella quale (per dirla con Ruffolo) "una società tutta tesa al conseguimento del benessere individuale e del potere come suoi valori determinanti, genera per compensazione un bisogno radicale di rapporti disinteressati e altruistici". Ma perché questo possa realizzarsi, è necessario che l'austerità non sia vissuta, dalle grandi masse e dai partiti di sinistra, come una concessione e un cedimento alle esigenze del sistema capitalistico in crisi, ma come un'occasione, uno strumento, una condizione per trasformazioni economiche, sociali e politiche importanti e anche per una vita migliore, più serena, e più appagante.
Naturalmente, come già dicevo, le proposte e le suggestioni che Ruffolo avanza per un nuovo sviluppo meritano un approfondimento. Resta aperto il problema delle scelte che la sinistra deve compiere, qui ed ora, nei diversi paesi, e su scala europea, per far fronte alla crisi dello Stato sociale e per superarla positivamente, per favorire e promuovere i processi di innovazione, per allargare, al tempo stesso, le possibilità di occupazione, ecc. Qui ed ora: perché non basta delineare le fondamenta di una nuova organizzazione produttiva, sociale e democratica, se non si ha poi la capacità di indicare le vie che bisogna imboccare nell'immediato per giungere a quei traguardi, e di agire di conseguenza. Qui ed ora: riuscendo cioè a districarsi, oggi, nel groviglio della attuale frantumazione sociale, delle aspirazioni (sia pure in parte distorte) della gente, dei corporativismi, delle contraddizioni che vanno crescendo anche all'interno delle masse lavoratrici e popolari, cioè delle forze sociali e culturali che pur dovrebbero essere le protagoniste di un difficile processo di trasformazione.
Ma qui andrebbe affrontato il problema politico centrale: quello delle forze che dovrebbero dirigere la società verso un nuovo sviluppo. Questo discorso non può non partire da una riflessione sulle varie, tormentate esperienze delle forze di sinistra in Europa, a cominciare da quella che si è realizzata negli ultimi anni in Francia, dove le sinistre hanno governato unite per un certo periodo e dove il partito socialista governa ancora. Questo problema non si può eludere, anche se Ruffolo non si proponeva di affrontarlo nel libro di cui discutiamo. Lo stesso Ruffolo, però, questo problema lo ha affrontato in molte altre occasioni, con articoli, saggi, interventi al vano tipo, e parlando soprattutto degli avvenimenti italiani degli ultimi tempi. Emerge cioè la questione di come lavorare per un largo schieramento di forze di sinistra e progressiste, e del loro programma. Anche qui le cose da discutere sarebbero molte. Ma io credo che la più importante di tutte riguardi la larghezza (sociale e politica) dello schieramento di maggioranza e di governo da costruire, per isolare le forze di destra, e per unire le forze progressiste di ogni tipo a una parte delle forze sociali e politiche che possono definirsi "moderate" o "centrali". Compito difficilissimo: ma che può essere assolto, in un paese come l'Italia, solo se comunisti e socialisti cercano di affrontarlo insieme (a differenza di quanto purtroppo non sia avvenuto finora).
Un'ultima notazione. Ruffolo resta convinto che porsi l'obiettivo del superamento del sistema capitalistico è cosa astratta ed irreale, pur riconoscendo che "i valori del capitalismo, fortemente propulsivi per lo sviluppo materiale del sistema, sono, allo stato puro, socialmente disgreganti". (Noi abbiamo molti dubbi sul "carattere propulsivo per lo sviluppo materiale": vediamo, anche in questo, grandi contraddizioni e forti limiti). Ruffolo teorizza la possibilità di una "integrazione" del capitalismo in "un sistema fondato su valori superiori di solidarietà sociale". La discussione su questa questione è assai complessa, e assai antica. Anche all'interno del Pci, come è noto, si è sviluppata, l'estate scorsa, all'inizio del nostro dibattito congressuale, una disputa sull'obiettivo della cosiddetta "fuoriuscita dal capitalismo". Mi sono apparsi sempre evidenti l'artificiosità e l'astrattezza di una disputa siffatta, anche perché mi è sembrato che essa non tenesse alcun conto delle conclusioni cui da lungo tempo eravamo giunti dopo anni di discussione: sulla impossibilità di puntare a una "fatale ora X" in cui saremmo riusciti ad "abbattere" il capitalismo e a iniziare la costruzione di una società nuova, e sulla necessità di concepire l'avanzata verso il socialismo in Italia e in Europa come un lungo e non lineare processo che sappia far leva sulle contraddizioni del sistema capitalistico e che ponga, volta a volta, i problemi la cui soluzione è indispensabile per lo sviluppo dell'intera società e trova ostacoli nella permanenza di vecchie strutture economiche, sociali e politiche. Ma lasciamo da parte questa discussione. Sembra a me che il rifiuto a porsi obiettivi di trasformazione radicale della società non può essere giustificato con il giudizio che si dà sulle società dell'Est europeo e di altre parti del mondo dove è stata operata, nel modo noto, una rottura con il sistema capitalistico. Altre vie possono e debbono essere tentate. Per l'Europa occidentale, noi abbiamo parlato della ricerca di una "terza via": che non è una via intermedia tra capitalismo e socialismo ma una via nuova per andare al socialismo e diversa dalle esperienze che hanno cercato di portare avanti, in questi ultimi decenni, il movimento comunista e i più importanti partiti socialdemocratici. È una ricerca che oggi è comune a noi, comunisti italiani, e a molti partiti socialisti europei. Anche il libro di Ruffolo lo considero come un contributo importante in questa ricerca.
I contenuti che Ruffolo indica per un nuovo sviluppo - lo abbiamo già detto - sono assai importanti, e tendono a trasformare nel profondo l'attuale società e l'attuale modo di vivere e di lavorare. Ma cosa saranno mai questa nuova società e questo nuovo sviluppo, in cui avranno un loro posto essenziale questioni come quella dell'ambiente, della socialità e di rapporti umani più elevati, di una partecipazione democratica larga alla gestione delle attività produttive e sociali, di uno sviluppo fondato su una programmazione? Potrà chiamarsi ancora, questa società che Ruffolo delinea, una società capitalistica? Dice Ruffolo: " È perfettamente possibile immaginare un capitalismo che accetti vincoli ecologici ed economici, che ne condizionano la profittabilità, in cambio di una valorizzazione sociale e culturale della sua performance tecnologica e professionale. Che poi, giunti a questo stadio, l'economia delle imprese e del mercato possa essere definita ancora come capitalismo, è questione che è più opportuno lasciare agli storici di domani".
Storici a parte, dobbiamo notare che almeno un dubbio si è insinuato nella mente di Giorgio Ruffolo. E allora, perché sarebbe disdicevole, o arretrato, per una forza di sinistra porsi la prospettiva e l'obiettivo dei superamento del sistema capitalistico verso una società socialista? "Nel mondo dell'incertezza, L'unica certezza sta nella nostra volontà" scrive Ruffolo. È forse un peccato, o un eccesso scandaloso di volontarismo, tendere la nostra volontà al raggiungimento di quell'obiettivo? Al contrario: io sono convinto che questa volontà è la condizione stessa per poter condurre con successo la battaglia riformistica cui pensa Ruffolo. E questo è tanto più vero quanto più mettiamo da parte concezioni meccanicistiche sulla necessità dell'avvento del socialismo. II più grande realismo non può non accoppiarsi alla più alta tensione, politica e ideale, per un cambiamento profondo e radicale dell'attuale assetto sociale ed economico capitalistico, e per il superamento dei suoi falsi valori.

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