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Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente - Nicola Savarese - copertina
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Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente
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Descrizione


Una storia generale del teatro intenso non tanto come scrittura drammatica quanto come rappresentazione e spettacolo. Climi, colori, atmosfere di un mondo esotico hanno attraversato l'Occidente fin dall'antica Grecia: provenivano dal "favoloso" e "misterioso" Oriente. In particolare il teatro, con i suoi attori e le sue compagnie itineranti, i suoi costumi, riti e leggende ha esercitato una grande influenza sul teatro moderno europeo e americano.
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Dettagli

8
2006
1 gennaio 2006
XXXIII-541 p., Brossura
9788842039518

Voce della critica


recensione di Taddei, M., L'Indice 1992, n. 8

Nella "Biblioteca Universale Laterza", la collana a cura di Franca Angelini, "Teatro e Spettacolo", dichiaratamente privilegia nell'esame dei documenti teatrali gli aspetti relativi alla rappresentazione, allo spettacolo, piuttosto che la scrittura drammatica. Coerente con l'impostazione della collana, Nicola Savarese tracciando un ampio panorama dei rapporti che legano le culture teatrali dell'Oriente e dell'Occidente tralascia momenti che per in altro contesto non mancherebbero di apparirci rilevanti.
Così potremo senz'altro accettare che non sia fatto cenno in questo volume a quei "drammi indiani" che il sanscritista e poligrafo Angelo De Gubernatis pubblicò e, in qualche caso, fece mettere in scena tra gli anni sessanta del XIX ed i primi anni del nostro secolo ("Il Re Nala", "Il Re Dasaratta", "Mƒyƒ o l'illusione", "Savitri", "Buddha"), sebbene non sia privo di interesse il fatto che nell'Italia umbertina si potesse sperare di avviare un nuovo "genere" di teatro, ispirato alle grandi figure dell'India antica, n‚ sia così banale la circostanza che uno di quei lavori, l'"idillio drammatico" "Savitri", fu tradotto in gujarati - oltre che in inglese - e messo in scena a Bombay, ed altri siano stati tradotti o adattati in tedesco ed in francese o, rielaborati in forma di libretto, siano stati proposti al teatro lirico, come il "Re Nala" musicato da Antonio Smareglia.
Meno comprensibile invece è che, in un'opera così ricca d'informazioni anche peregrine e di un'aneddotica talvolta esuberante, nulla si dica del progetto di un'opera sul Buddha (si sarebbe chiamata "Die Sieger") su cui Richard Wagner lavorò per.qualche tempo. Il progetto fu abbandonato (come anche quello di un "Re Nala"), ma forse non è del tutto giusto che il volume di Savarese ricordi Wagner quasi solo per dire che nel 1881 leggeva le compromettenti pagine del Conte di Gobineau.
D'altra parte sarebbe ancor meno giusto andare in cerca di lacune in un'opera come questa che si sforza d'essere ad un tempo una storia delle influenze del teatro orientale su quello europeo ed una traccia per la storia dell'atteggiamento europeo nei confronti delle culture diverse, in particolare di quelle asiatiche. Si può forse alla fine trarre l'impressione che le varie parti siano un po' squilibrate, che la competenza dell'autore su taluni temi (il teatro moderno) si dispieghi con la massima chiarezza mentre su altri appaia piuttosto di seconda mano; ma potrebbe essere diversamente? Io credo di no, e mi sembrano molto più apprezzabili e godibili le parti migliori di quanto non siano deludenti quelle meno riuscite.
Savarese ha distribuito la sua materia in sei capitoli il primo tratta del "mito dell'Asia" nel teatro occidentale dall'antichità al Rinascimento; il secondo dell'esotismo nel teatro europeo tra XVII e XVIII secolo il terzo nel primi contatti con i teatri asiatici tra illuminismo e romanticismo; il quarto degli attori orientali che viaggiarono in Occidente; il quinto ed il sesto dell'intrico di contatti, pulsioni, fascinazioni e sperimenti che, nel corso del nostro secolo, hanno portato l'"Oriente" ad esser parte della nostra tradizione teatrale, non tanto come soggetto trattato, n‚ peraltro come modello, quanto come esperienza ormai ineludibile di forme espressive diverse, tale da generare impreviste novità. Come Picasso si era ispirato a manufatti di arte africana ma poi rispondeva ad un intervistatore "L'art negre? Connais pas!", così Antonin Artaud - scrive Savarese - "usa lo spettacolo balinese perché la sua estraneità è utile a creare la differenza: non vuole attivare una conoscenza della cultura da cui proviene l'esempio ma creare con esso un corto circuito". E chissà che non sia questo il modo migliore di capire.
La parte che si sofferma sul mondo antico e medievale coglie alcuni aspetti salienti dei rapporti tra le due culture che vanno dall'Asia "barbara" nella tragedia greca al fascino che l'Oriente esercitò su Alessandro e sui Romani, dall'Oriente onirico del medioevo alle conturbanti rispondenze iconografiche nelle "danze macabre": e osserviamo che su quest'ultima aspetto si consolidano alcuni equivoci, perché Savarese, oltre che sull'inappuntabile Èmile Male, si basa anche su un autore di genio, Jurgis Baltrusaitis, non sempre preciso nei suoi riferimenti, e quanto egli trae da Baltrusaitis è appunto in parte sbagliato. Altri spunti l'autore avrebbe trovato certamente in un bel libro che purtroppo gli è sfuggito: quello di Partha Mitter, "Much Maligned Monsters: Historj of European Reactions to Indian Art", che fu pubblicato a Oxford nel 1977.
Il quadro che ci si offre tra XVII e XVIII secolo è certamente più complesso, più vivo, soprattutto più aperto, quando l'orientale può anche essere visto come modello positivo. "È il dibattito tutto illuministico sull'umanità" - scrive giustamente Savarese - "in cui non le nazioni asiatiche ma le loro immagini occidentali si propongono come modello di vita morale ad una civiltà europea frivola, ipocrita e corrotta". E ancora: "Turchi, persiani, cinesi e indiani, benché antagonisti, non sono più visti come un mondo ostile, crudele e minaccioso ma al contrario diventano un'umanità esemplare, giusta, magnanima e tollerante".
Ma al tempo stesso la diretta esperienza dell'Oriente pone dei problemi di coscienza all'europeo, che riafferma la propria superiorità nei con fronti degli orientali quando s'imbatte in usi ai suoi occhi repellenti e inaccettabili come il rogo delle vedove in India. Ed è quello uno dei passi più godibili del libro, là dove si riesuma la descrizione della messinscena parigina del dramma "indiano" "La Veuve du Malabar" di Antoine-Marin Lemierre: questi aveva immaginato "la coraggiosa reazione di un ufficiale francese di fronte alla scena di una giovane donna indiana costretta dalle 'barbare usanze' della sua gente a gettarsi nel fuoco dopo la morte del marito". Il gran rogo che fu fatto ardere sulla scena nella rappresentazione del 1780 colpì l'animo dei parigini che ne trassero incitamento alla polemica contro il clero ed il fanatismo religioso.
Nella pièce di Lemierre la vedova veniva salvata dall'ufficiale francese aiutato dai suoi uomini e Savarese fa notare argutamente che ancora nel 1873 "Jules Verne potrà inserire una scena molto simile a questa del dramma di Lemierre nel suo romanzo "Il giro del mondo in ottanta giorni". A gettarsi nel fuoco per salvare la giovane vedova non sarà l'eroe inglese del romanzo, Phileas Fogg, ma proprio un francese, il suo fedele servo Passepartout' . Un caso? non credo. piuttosto si tratterà d'un cliché letterario di rapido e duraturo successo. Posso aggiungere, a conforto dell'intuizione di Savarese, che alcuni anni dopo la messinscena parigina della "Veuve da Malabar", un ufficiale francese, L. de Grandpré, racconta nel suo "Voyage dans l'Inde et au Bengale, fait dans les années 1789 et 1790" (Paris 1801) di aver tentato nel Bengala il salvataggio di una giovane vedova dal rogo. Anche qui entrano in gioco gli uomini dell'ufficiale secondo un copione che sembra esemplato sulla pièce di Lemierre. Che la storia sia del tutto inventata non potrei dire, ché spesso è la realtà ad esser modellata sulla fantasia.
In questo clima di vivace interesse, oscillante tra l'ammirazione e la ripulsa, il teatro si assicura un ruolo speciale; una circostanza importante è che resti documentazione scritta degli scambi e dei rapporti intercorrenti tra le arti teatrali d'Oriente e d'Occidente: e ciò avvenne perché allora nella civiltà occidentale "la considerazione del teatro (sia in quanto testo drammatico e cioè frutto di un'arte alta come la letteratura, sia in quanto pratica bassa dell'attore) raggiunse una rispettabilità sociale non solo ampiamente accettata ma addirittura onorata come una delle più brillanti metafore per interpretare la condizione umana". La riflessione di Savarese si conclude con queste parole, che servono di guida alla comprensione del fenomeno: "Così il primo cosciente approccio degli europei ai teatri asiatici è avvenuto ai livelli di testi teatrali e poi, ma solo un secolo più tardi, sul piano di veri e propri incontri fra gente di teatro".
E qui si apre la parte più ricca e avvincente del libro. Tentarne una sintesi sarebbe quasi impossibile e certamente inutile. Basterà sottolineare il ruolo che hanno alcune figure nel racconto: racconto fatto di percorsi intrecciati, secondo una tecnica abile ed efficace, per cui un personaggio che lasciamo ad un certo punto lo ritroviamo più avanti in un'altra storia, e le due storie alla fine si rischiarano l'una con l'altra.
Va ad esempio ricordata la funzione di filo conduttore che ha nel testo un'opera come la "Sakuntala" di Kalidisa: dal suo rinvenimento verso la fine del XVIII secolo, ad opera di Sir William Jones, alle successive edizioni e traduzioni inglesi, tedesche, italiane, fino a quella fondamentale francese di Chézy del 1830 (Savarese impropriamente la definisce editio princeps, che invece vuoi dire "prima edizione a stampa"), agli entusiasmi che il dramma suscitò in Goethe, in A.W. Schlegel e in tanti altri, fino a Franco Alfano, passando per Franz Schubert e Théophile Gautier.
Poi che s'è detto del dramma di Kalidasa, ricordiamo anche un'altra opera orientale più volte ripresa in Occidente, sì da acquistare da noi un'aura di nobiltà che non le apparteneva affatto, "L'Orfano della famiglia Zhao". Una sua incompleta traduzione francese rimase a lungo l'unico esempio conosciuto di dramma cinese - "classico", si credeva, ma in realtà libretto d'opera - e fu oggetto di imitazioni e rifacimenti; dapprima William Hatchett ("The Chinese Orphan*, 1741), poi il Metastasio con "L'eroe cinese" (1752), infine, nel 1755, Voltaire con "L'Orphelin de la Chine". E qui Savarese tratta con chiaro giudizio della frequentazione dell'Oriente, soprattutto dell'India, che ebbe Voltaire, ponendo infine in evidenza il fatto che il filosofo non vedeva l'Oriente che come voleva vederlo: "... nonostante il divario culturale fra Voltaire e tutti gli altri drammaturghi che imitarono il dramma dell'Orfano Zhao, anche "L'Orphelin de la Chine" non fu fedele all'originale cinese, perché non intendeva esserlo. Non era intenzione di Voltaire introdurre il pubblico europeo al teatro cinese, ma commuoverlo con una tragedia "piena d'amore", proveniente da un'altra civiltà vera e grande".
Così pure, accennavo prima, si è condotti ad esplorare le esperienze orientali del teatro d'Occidente attraverso continui richiami ad alcuni personaggi guida: dalla ex geisha Sada Yacco (1871-1946) che con il marito Kawakami Otoijro portò in Occidente lo spirito del teatro Kabuki e in Giappone la tradizione del dramma di Shakespeare, alla danzatrice Hanako (1868-11945) che fu capace di suscitare l'interesse di Rodin per l'arte teatrale. E ad esse si affiancano le danze cambogiane che ispirarono al volger del secolo Cléo de Mérode, il corpo di ballo del re di Cambogia che giunto in Francia nel 1906 di nuovo ispirò Rodin, e i danzatori reali siamesi che in visita a San Pietroburgo nel 1900 lasciarono il segno sull'opera di Michail Fokine e di Léon Bakst, rispettivamente il coreografo e lo scenografo e costumista dei Ballers Russes di Diaghilev, e poi, ancora, Uday Shankar, che tentò di rinnovare la tradizione indiana della danza, ed Ananda Coomaraswamy cui Gordon Craig chiedeva gli strumenti tecnici per avvicinare con maggiore consapevolezza l'arte degli attori-danzatori dell'India (e Coomaraswamy lo accontentò pubblicando la traduzione dell'"Abhinaya Darpana" di Nandikesvara, sotto il titolo "The Mirror of Gesture", Cambridge 1917). E potremmo continuare a lungo, sempre guardando ai luoghi della nostra tradizione teatrale da un punto di osservazione diverso da quello cui siamo avvezzi.
In un'opera di tanta ampiezza sarebbe stato difficile, già a ciò facevo cenno, evitare qualche lacuna e qualche trascuratezza. Non se ne vuoi qui fare un elenco completo, ma qualcuna delle sviste sarà pur da registrare, se non altro per suggerire all'autore di limare il testo in una seconda edizione che sinceramente gli auguriamo di veder presto stampata.
Dopo aver citato un passo delle "Baccanti", Savarese scrive: "Come si sarà notato, l'Asia descritta da Dioniso, e cioè da Euripide, ... non corrisponde a tutta l'Asia ma soltanto alI"Asia Minore' e più precisamente alla Lidia ...". Ma Euripide richiamava le "plaghe assolate di Persia" e le "rocche della Battriana", che, anche a mettercisi d'impegno, non si riuscirebbe mai a far stare nell'Asia Minore. E, a proposito dei culti "dionisiaci", la Battriana (l'Afghanistan settentrionale) è probabilmente una regione non di secondo piano. Cosi quando si parla delle "colonie" greche dell'India, "fondate dagli ufficiali di Alessandro come delle vere e proprie poleis", non vedo a quali altre fondazioni ci si possa materialmente riferire se non alle città greche di Battriana e di Arachosia, le più prossime all'India; e quindi non è molto utile dire che "non si sono mai trovati resti di teatri greci in India": nell'India propria, non che i teatri, son le città greche che non sono state trovate (come la Alexandria Bucephala sulla sponda orientale del Jhelum, o l'altra Alexandria alla confluenza del Chenab e dell'Indo, note dalle fonti), mentre un teatro è stato in anni recenti scavato ad Ai Khanum, appunto in Battriana.
Altre imprecisioni sarebbero state facilmente evitate anche solo facendo scorrere le bozze di stampa da chi avesse qualche dimestichezza con l'India antica: non ci sarebbe avvenuto in quel caso di leggere "una yavanis" (cioè una ragazza greca) per "una yavanf" (la -s è del plurale inglese) e "yavanos" (greci) per "Pavana", o "Kanchipuram, la capitale di Pallava" in luogo di "dei Pallava" (che sono una dinastia), o ancora "i mudra" anziché "le mudra, "il Bhagavad gita" anziché "la Bhagavad Giti", n‚ ci sarebbe avvenuto di leggere che "i sovrani kushan si facevano chiamare ... 'Maharajasa Rajatirajasa Devaputrasa Kaisarasa' che è sanscrito e significa 'grande re'": lingua davvero strana sarebbe il sanscrito se ci volessero tante parole per dire "grande re"; in realtà questo concetto è espresso dal solo mahdrdia (e il -sa/sya finale sta per il genitivo). Ma la conoscenza dell'India antica non è necessaria per evitare una svista curiosa come quella che fa dire all'autore che "Nel 1838... la gaia Parigi di Napoleone III aveva potuto ammirare una compagnia di autentiche bayadere ...": nel 1838 era ancora al suo posto Luigi Filippo. Vorremmo poi attribuire ad un refuso la sconcertante notizia che Kanishka (del I-II secolo d.C.) sarebbe stato un re "indo-sciita" (e dunque musulmano), in luogo di "indo-scita"! Tuttavia la scrittura del libro è rapida, felice, a tratti avvincente e il ricco e sistematico repertorio bibliografico consente all'autore di non appesantire il testo con note a piè di pagina. E giunti alla fine del volume, si ha la consapevolezza di esser stati condotti attraverso un territorio poco esplorato con mano sicura. L'opera di Savarese è di quelle che lasciano ammirati per la vastità e l'impegno multidisciplinare: le imperfezioni vanno messe nel conto fin dall'inizio e attribuite nel nostro caso ad una mancata tranquilla rilettura prima del "si stampi".

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