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Emozioni e desideri in Cina. La riflessione neoconfuciana dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo - Paolo Santangelo - copertina
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Emozioni e desideri in Cina. La riflessione neoconfuciana dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo
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Emozioni e desideri in Cina. La riflessione neoconfuciana dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo - Paolo Santangelo - copertina
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Dettagli

1992
9 novembre 1992
214 p.
9788842041245

Voce della critica


recensione di Raveri, M., L'Indice 1993, n. 7

Per i letterati confuciani dell'antichità come per i pensatori cinesi moderni parlare di emozioni ha sempre significato affrontare un argomento molto imbarazzante. Il ritegno e il pudore tradizionale creano un profondo disagio nello svelare apertamente i lati più intimi e segreti della personalità. Non a caso la tradizione estetica cinese ha bandito l'espressione palese dei sentimenti, considerandola quasi volgare, e portando a estrema raffinatezza il gusto dell'allusione, della metafora, del suggerimento simbolico. Le emozioni e i desideri erano interpretati come movimenti oscuri dell'animo, carichi di forza dirompente, e sentiti come un potenziale pericolo per l'equilibrio interiore. D'altra parte i pensatori cinesi erano ben consci che i sentimenti, pur appartenendo all'ambito del mondo privato, non potevano non riflettersi anche in campo sociale e avere profonde implicazioni morali e politiche. Si trovarono dunque di fronte al dilemma di un tema che sarebbe stato meglio evitare, ma talmente importante da non poter essere ignorato.
Anche per lo studioso occidentale analizzare come la cultura cinese ha interpretato il mondo dei sentimenti e delle passioni è un'impresa rischiosa, anche se di grande fascino intellettuale, perché implica dei complessi problemi di carattere metodologico ed esegetico. I sinologi ne avevano studiato finora solo aspetti molto specifici. Per la prima volta questo libro affronta il problema in modo organico, mettendo a fuoco la riflessione filosofica dei maggiori pensatori delle due ultime dinastie, Min; (1368-1644) e Qing (1644-1911). E l'ideale continuazione di uno studio che l'autore ha pubblicato nel 1991, sempre per i tipi di Laterza: "Il "peccato" in Cina. Bene e male nel neoconfucianesimo dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo".
Santangelo delinea innanzitutto il concetto tradizionale di "emozione": problema sottile e sfuggente perché gli strumenti di analisi si rivelano ben presto relativi. Infatti il significato stesso del termine è oggetto di un acceso dibattito fra gli psicologi e i filosofi contemporanei. Inoltre non esiste un'identità fra la nozione occidentale di emozione e quelle analoghe nel pensiero dell'Estremo Oriente: gli stati emotivi sono stati scandagliati, classificati e vissuti in base a differenti concezioni e parametri di valore.
Impostato il problema nei suoi termini teoretici e nelle sue radici storiche, l'autore si concentra sulla speculazione filosofica neoconfuciana, ed è sorprendente notare quanto variegato fosse il quadro delle interpretazioni. Il libro qui arriva al suo nucleo centrale. La scelta di analizzare le speculazioni dei fratelli Chen e di Zhu Xi è cruciale: le loro dottrine rigoriste, che fondavano un giudizio tendenzialmente negativo dei sentimenti, si tradussero in un'"ortodossia" che doveva condizionare generazioni di letterati e di governanti -in Cina come in Giappone e in Corea - per molti aspetti fino ancora a oggi. Ma gli ultimi capitoli mettono in luce anche il nascere, dalla metà della dinastia Qing, di posizioni innovatrici, che espressero, seppur in modo contraddittorio, con affermazioni talvolta volutamente provocatorie, la tendenza all'accettazione dei desideri e alla valorizzazione dei sentimenti.
È un saggio scritto con uno stile limpido e incisivo, che lo rende accessibile anche ai non specialisti. L'argomentazione procede serrata, con un intreccio di continui rimandi e sorretta da un ottimo apparato di note. Si sente il gusto dell'indagine paziente, il progressivo piacere dello scoprire e svelare al lettore la ricchezza di significati in un campo di indagine prima inesplorato. La bibliografia è veramente ampia e suggestiva. E spiace, di fronte a un'impostazione così rigorosa del lavoro e all'estrema attenzione data all'esegesi testuale, la scelta editoriale (comune purtroppo a molte case editrici italiane) di non stampare gli ideogrammi nel testo, anche solo nella forma di una lista-glossario in appendice.
L'autore fa riferimento costante alle fonti cinesi classiche e moderne, per cui il fascino del libro è anche in un dinamico contrappunto di voci: a quella dello studioso che riflette sul problema si intrecciano le voci dei letterati confuciani, con il loro stile così peculiare di argomentazione, l'acutezza di certe sintesi concettuali in frasi di densa essenzialità come anche di certa pedante prolissità. E c'è ancora una terza "voce", che è quella della tradizione occidentale, cui Santangelo fa spesso richiamo e che aiuta il lettore a cogliere meglio il senso di talune dinamiche teoretiche e la logica delle differenti scelte culturali.
Questo libro si presta ad essere letto a vari livelli e secondo diverse prospettive. Non solo i sinologi, ma anche uno storico del pensiero, uno psicologo, o chi si interessi di etica, possono essere attratti da uno studio che permette loro di conoscere un sistema di valori sotto molti aspetti "alternativo" ai modelli occidentali. Così l'antropologo, riflettendo sul tipo di rappresentazione collettiva dei sensi e dei sentimenti che la società cinese ha creato nelle varie epoche, può portare nuovi contributi nel dibattito sull'universalità o meno degli stati interiori e sul problema delle classificazioni simboliche.
Il nocciolo del problema, ciò che crea quella lucida tensione intellettuale che anima molte pagine del volume, è l'intento di cogliere tutte le sfumature di un giudizio che, pur derivando da un sistema così rigoroso e coerente come quello della "scuola del principio", di fronte al mondo dei sentimenti si rivela ambiguo e controverso.
Pensatori come Zhu Xi, infatti, teorizzavano un'opposizione fra il principio assoluto ('li') presente in tutti gli esseri (la loro "natura" vera) e l'energia cosmica ('qi') che modella le caratteristiche fisiche e morali di ogni singolo individuo e che si esprime nel temperamento. Nella loro severa prospettiva la "natura" era chiara e oggettiva, le emozioni erano torbide e soggettive; il principio era universale, i sentimenti invece parziali ed "egoistici". Eppure erano presenti in tutti gli uomini. Di qui - come Santangelo mette bene in luce - la contraddizione profonda che i neoconfuciani ortodossi non riusciranno mai veramente a sanare da un punto di vista teoretico. Se la natura umana fosse stata considerata cattiva, giudicare i segreti moti dell'animo ugualmente perversi sarebbe stato coerente. Ma per il neoconfucianesimo la natura umana era buona: perciò la valutazione delle emozioni e dei desideri diventava ben più complessa. La questione non era platonica: era di cruciale importanza per questi filosofi che miravano a stabilire un equilibrio fra la ricerca del perfezionamento interiore e le esigenze dell'agire politico e sociale.
L'ambivalenza etica delle emozioni deriva dal fatto che il pensiero cinese le ha interpretate come un processo dell'animo, una risposta a delle sollecitazioni esterne. Quando la mente è calma, distaccata, priva di ogni coinvolgimento emotivo, la sua natura è "limpida come uno specchio", è in armonia con il principio universale che è in lei. E ciò è bene. Se invece è dominata dal desiderio, può essere turbata da elementi esterni, può esserne resa succube e attivare emozioni violente, smodate o inopportune. Di questo eccesso l'uomo ha responsabilità morale. Siamo al nocciolo del problema: come giustamente sintetizza Santangelo, per l'ideologia cinese il problema del bene e del male nell'uomo è in ultima analisi quello dell'"addomesticamento" delle passioni. Poiché i moralisti si erano accorti che emozioni e desideri non potevano essere n‚ condannati come ontologicamente malvagi n‚ di fatto potevano essere soppressi, percorsero la via del loro massimo controllo e tentarono di piegarli alla logica del doveri sociali. Perciò i sentimenti furono definiti buoni finché erano moderati e si conformavano alle esigenze di armonia sociale, e i desideri furono ammessi nella misura in cui fossero stati indotti dai bisogni fisici essenziali. L'etica riprendeva così l'antica concezione di Mencio sulla necessità di coltivare la mente ed educare i sensi attraverso la funzione catartica dei riti per sviluppare solo quegli stati interiori "buoni" che fondavano le relazioni sociali "giuste".
È vero che nella tradizione occidentale antica e medievale è forte la tendenza a considerare le passioni come "malattie dell'anima" che offuscano la mente, limitando la libertà. Ma c'è sempre stato anche tutto un filone di pensiero che ha attribuito un alto valore alle passioni - e in primo luogo all'amore - e ha riconosciuto la funzione positiva dello slancio emotivo in un modo che non ha eguali nella civiltà cinese. Nel pensiero dell'Asia orientale non c'è il disprezzo metafisico per i sensi, ma neppure la sublimazione della passione nell'ideale religioso. Così come corpo e anima non sono i termini di una dicotomia insanabile. E se nella cultura europea la "passione" trova nella "ragione" la sua antitesi, per la cultura cinese l'opposizione è fra l'"armonia" dell'equilibrio e il "disordine" dell'eccesso.
La diffidenza del pensiero cinese nei confronti delle emozioni aveva radici antiche. Le teorie buddhiste su questo punto erano chiarissime: le passioni - chiamate anche i "demoni" o i "banditi" della mente - erano disordini che infettavano l'animo, distruggevano i tesori della virtù e imprigionavano l'uomo nella catena delle rinascite. La risposta taoista invece non fu affatto univoca e il libro contribuisce a sfatare il diffuso luogo comune che vede nel taoismo una teoria "edonistica" che esalta la passione dei sensi. I sentimenti erano considerati legittimi purché non fossero eccessivi. L'ideale era il superamento dello stadio emozionale attraverso la "liberazione dai legami'', la comprensione serena, imparziale della realtà nel suo incessante mutamento, nel pieno controllo di sé, senza coinvolgimento emotivo, senza interessi personali, senza sforzo. È la condizione dell'"uomo genuino", di colui cioè che agisce in armonia con se stesso, libero da pregiudizi, flessibile e calmo. L'animo imperturbabile non significa quindi ipocrisia o indifferenza, ma determinazione morale.
Certo, il neoconfucianesimo, nonostante il suo profondo razionalismo e la sua attenzione ai processi psicologici, non riuscì a risolvere la contrapposizione fondamentale fra le esigenze di stabilità e di armonia sociale e gli impulsi individuali, fra libertà e socialità e forse neppure le contraddizioni inerenti allo stesso individuo, tra desiderio di serenità e slancio delle passioni. Tali contraddizioni appaiono già nella società cinese tardo Ming e nello stesso ambito filosofico si levano voci di letterati che cominciano a porre in dubbio il rigorismo dell'ideologia ufficiale. Si viene manifestando una più profonda sensibilità culturale verso il mondo nascosto delle passioni e viene alla luce l'esigenza di un più pieno sviluppo della personalità individuale, valorizzando il ruolo dei sentimenti. La svolta innovatrice non risultò vincente: queste nuove tendenze rimasero circoscritte a limitati circoli di intellettuali. L'educazione continuò a scoraggiare la coltivazione dei sentimenti. Cosi i germogli di individualismo di certi pensatori eterodossi non riuscirono a minare la cappa ideologica stabilita dall'ortodossia Qing e ripresa poi dal rigorismo marxista. Questi filosofi, originali e indipendenti, furono attaccati con veemenza dagli ortodossi con l'accusa di essere amorali. Non era vero: la rivalutazione dei desideri e delle emozioni era di fatto la ricerca di una nuova morale che legittimasse l'instaurarsi di diverse relazioni sociali. In quest'ultima parte del libro l'autore è molto attento a tutte le sfumature del dibattito fra innovazione e tradizione e supera le consuete, facili contrapposizioni. Così i pensatori "eterodossi" risultano essere molto meno eversivi di quanto potessero apparire a prima vista, e la stessa "ortodossia" neoconfuciana, con i suoi ideali di superiorità e di distacco nei confronti delle debolezze umane, si delinea meno statica, puritana e gretta di quanto in generale si è tentati di credere.

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