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Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991 - Nello Ajello - copertina
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Descrizione


Attraverso mille episodi e personaggi Nello Ajello racconta in questo libro i rapporti tra gli intellettuali (non solo comunisti) e il maggior partito della sinistra tra il boom economico e la nascita del Pds.
In un volume precedente, comparso in questa stessa collana, Ajello aveva preso in esame il periodo dell'immediato dopoguerra (Intellettuali e Pci. 1944-1958, 1979), caratterizzato dall'intellettuale «organico».
Ma dalla fine degli anni Cinquanta inizia il «lungo addio» che procederà con alterne vicende fino a oggi. Una divaricazione crescente tra la logica del partito di Longo e Berlinguer, di Occhetto e di D'Alema e le ragioni di intellettuali come Moravia, Pasolini, Sciascia, Magris, Asor Rosa, Colletti, Cacciari (per citarne solo alcuni). Ajello ricostruisce questa storia attraverso esperienze diverse come il centro-sinistra, l'avanguardia, il Sessantotto, il femminismo, il terrorismo, il crollo del Muro di Berlino, i due drammatici congressi della «svolta», raccontandone aspetti più o meno conosciuti con la penna brillante di un grande giornalista e scrittore.

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Dettagli

1997
11 settembre 1997
466 p.
9788842053231

Valutazioni e recensioni

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Lapo
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Seconda puntata del rapporto fra intellettuali e Partito Comunista. Questa volta la finestra temporale è larga più del doppio (1958-1991) e le vicende attraversano i cinque segretari del dopoguerra. Come nel quindicennio antecedente, la relazione con l’intellettualità sarà altrettanto problematica, resa ancor più turbolenta dai controversi rapporti con il PSI, dal mondo magmatico che si muove a sinistra del PCI (il Sessantotto, la questione “manifesto”), dalle ambiguità del ‘77 e dagli avvenimenti drammatici che riguardano Praga, Aldo Moro, le BR e il crollo del Muro, tutte circostanze nelle quali gli intellettuali assumeranno posizioni alterne nei confronti della politica comunista; in un certo numero li si vedrà salire sul carro del vincitore oppure scendere se il carro traballa, e con il passare del tempo la loro voce si farà sempre più flebile. Diversamente dal precedente volume – nel quale il ruolo dell’intellighenzia era più marcato – il libro si impernia in particolar modo sulle alterne vicende del partito, fino alla sua malinconica disgregazione. Opportuna la scelta redazionale di collocare le note a piè di pagina anziché a fine volume, cosa che rende molto più agevole la loro consultazione.

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Voce della critica


recensione di Tranfaglia, N., L'Indice 1998, n. 1

Quando, nel 1979, apparve il volume di Nello Ajello su Intellettuali e PCI 1944-1958 (Laterza), anche i suoi critici più severi riconobbero che si trattava di un contributo importante alla storia tormentata, ma significativa, del rapporto tra il maggior partito comunista europeo e quelli che ve-nivano definiti, a torto o a ragio-ne, nell'accezione consolidata del termine, intellettuali: vale a dire persone, scienziati o umanisti che fossero, che facevano del proprio lavoro culturale il tratto distintivo della propria personalità complessiva.
Con il volume appena uscito, l'autore affronta un compito assai più arduo, prolungando la sua narrazione, sempre limpida e piacevole, ricca di osservazioni intelligenti, al crollo dell'impero sovietico e alla fine dell'esperimento comunista come espressione di un'alternativa generale al sistema produttivo capitalistico del nostro secolo.
Nel primo volume Ajello aveva raccontato essenzialmente le vicende dell'intellettuale "organico" al partito, mettendone in luce i problemi sino al distacco che per molti era maturato con il rapporto di Chrusÿcÿëv al XX congresso del Pcus e con la rivoluzione ungherese dell'ottobre 1956. Ora affronta un periodo assai più difficile da definire e non è un caso che il titolo del volume parli genericamente di un "lungo addio", durato più di trent'anni e coinciso con lo scioglimento del Pci e la nascita del Pds.
Riallacciandosi al discorso fatto quasi vent'anni fa, Ajello mette in luce due elementi di grande importanza. Il primo è la singolare divisione di compiti che si stabilì in Italia fin dagli anni cinquanta tra gli intellettuali comunisti e quelli cattolici e moderati: i primi ebbero una chiara funzione egemonica nell'alta cultura italiana, ossia in quella di élite; i secondi si dedicarono, con successo, alla cultura di massa presente nel settore radiotelevisivo come in quello giornalistico. Con un'evidente contraddizione, giacché sarebbe stato naturale che fossero i comunisti a occuparsi della cultura di massa, e i moderati di quella di élite.
Ma, se questo avvenne, fu sia per il controllo da parte della Dc e poi dei socialisti della cultura di massa, restando il Pci all'opposizione, sia per l'atteggiamento elitario che contraddistingueva gli intellettuali comunisti, a sua volta in gran parte espressione dello storicismo idealistico che aveva fatto capo a Benedetto Croce.
Un altro aspetto che emerge con chiarezza dalla cronaca assai precisa che viene tratteggiata è la non coincidenza, negli intellettuali vicini ai comunisti, tra ideologia e fede politica. Una parte rilevante di intellettuali si pose, nel trentennio preso in esame, dalla parte del Partito comunista non perché nutriva una fede marxista o comunista bensì perché vedeva nei comunisti l'opposizione al blocco di potere prima democristiano, poi democristiano-socialista che governava il paese secondo regole e direzioni per nulla condivisibili sul piano politico come su quello culturale ed economico-sociale. Ajello riporta, a dimostrazione di ciò, una recente testimonianza di Tullio De Mauro, ma chi scrive potrebbe confermare la cosa, e molti altri non avrebbero difficoltà a rendere un'analoga testimonianza.
Negli anni sessanta, sia pure lentamente, un mutamento s'incomincia a intravedere. Da una parte, dopo la scomparsa di Togliatti, sia pure con una lentezza esasperante che finirà per segnarne l'inarrestabile declino negli anni ottanta, il Partito comunista inizia ad allontanarsi dallo stalinismo e ad aprirsi a un rapporto meno dogmatico con le altre culture e con il mondo intellettuale. Dall'altra, ha inizio un processo di specializzazione e di frammentazione degli intellettuali, che si trasformano in un interlocutore diverso, e per molti aspetti meno importante, delle maggiori forze politiche.
Ajello osserva, a ragione, che nessun'altra forza, anche tra quelle nate a sinistra del Pci negli ultimi trent'anni, riesce a rompere il rapporto privilegiato tra la maggiore forza della sinistra e la maggioranza degli intellettuali: non ci riescono i socialisti, se non per un momento assai breve, prima dell'involuzione politica del partito provocata dalla direzione di Craxi, né i gruppi extraparlamentari, che pure mostrano una qualche attenzione, negli anni settanta, all'elaborazione storica e filosofica, ma anche scientifica, delle più giovani generazioni di studiosi.
Negli ultimi anni, i rapporti tra il Pci, e poi tra il suo erede Pds, e gli intellettuali sono comunque più difficili e tormentati: senza parlare dei tanti ex comunisti che si sono orientati nettamente a destra, si può dire che i legami tra la forza politica ancora egemone della sinistra e la maggioranza degli intellettuali sono assai meno stretti di una volta.
Ciò dipende, a mio avviso, dal fatto che la crisi della repubblica non si è ancora conclusa e viviamo tutti una difficile transizione non solo politica, ma anche culturale. Ma, se non sbaglio, altri due fattori influiscono a determinare questa situazione. I partiti politici, nella loro attuale configurazione, non sentono il bisogno di continuare a essere, come erano stati in passato, centri di elaborazione intellettuale e privilegiano in maniera esclusiva la tattica rispetto alla strategia. Da parte loro, gli intellettuali, incapaci di governare e di dominare la complessità, si sono tuffati nella specializzazione, e questo fatalmente li allontana, se non dall'impegno civile (il che comunque accade sovente), almeno dalla partecipazione attiva alla lotta politica.

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