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Questa agile sintesi esamina le conseguenze che la costruzione dello stato unitario e le politiche governative negli anni della crisi agraria, dell'emigrazione e del decollo industriale ebbero sul paesaggio urbano e rurale, sulle condizioni abitative e di lavoro, sull'alimentazione, i modelli familiari e gli stili di vita dei molteplici segmenti che costituivano la società del tempo. Gli italiani, oltre che poveri, erano disuniti, non solo per l'eredità del passato, ma anche per le contrastanti risposte che aree e gruppi sociali diversi diedero ai processi di modernizzazione in atto.
Le nobiltà regionali, in declino più o meno lento a seconda del maggiore o minore dinamismo dell'ambiente in cui operavano, in molti casi non furono capaci di ricomporsi intorno alle nuove istituzioni, rimanendo ancorate a comportamenti esclusivi. I grandi proprietari avevano profili economici diversi a seconda delle zone e reagirono in maniera differente al cambiamento economico. I circoli finanziari, dominati ancora dalla figura del banchiere-mercante, avevano scarsa osmosi con gli operatori industriali, attestati sul modello dell'impresa familiare. Pure il mondo dei lavoratori manuali era disomogeneo: fino alla svolta del Novecento la maggior parte degli operai era inserita in una dimensione rurale e precaria, che ostacolava la diffusione di una coscienza di classe e tendeva a riprodurre, anche nel nascente triangolo industriale, i legami solidaristici delle comunità tradizionali. I contadini, ovvero la stragrande maggioranza degli italiani, si dividevano nelle tre grandi famiglie dei braccianti, dei mezzadri e dei piccoli proprietari, con forme di ibridazione che mutavano a seconda dei contesti. Anche la galassia borghese era tutt'altro che indifferenziata, con le lower middle classes di commercianti e artigiani caratterizzate da una forte ereditarietà professionale, e con le élite fondiarie scisse tra l'imitazione delle funzioni pedagogico-paternalistiche dei nobili e l'accettazione di sistemi di relazioni più moderni.
Tuttavia è solo nel magmatico universo dei ceti medi che Montroni rintraccia l'esistenza di tipologie nazionali, distribuite in tutto il paese con gli stessi profili socioeconomici e con valori e interessi non solo localistici: erano gli impiegati pubblici, una categoria ancora ammantata di prestigio, mobile sul territorio, portata a identificarsi con lo stato; e i professionisti, legati al regime liberale, animati da intenti associativi e dall'interesse per il bene pubblico. La ridotta consistenza di questo asse burocratico-professionale fu una delle cause della limitata nazionalizzazione degli italiani, che aveva un tratto peculiare nella contraddizione tra il progressivo uniformarsi degli scenari urbani e la totale separazione delle campagne, e che mostrava le conseguenze più drammatiche nella scarsa legittimazione della classe dirigente e nella diffusione della malavita organizzata, capace in alcune aree di sostituirsi allo stato.
Questa interessante conclusione, che emerge in maniera non troppo evidente a causa di una struttura testuale un po' carsica, pare tuttavia incompleta, dato che altre considerazioni potevano essere richiamate in merito al problema dello scarso senso dello stato: dalla delegittimazione derivante dall'opposizione della maggioranza dei sacerdoti, altra tipologia uniformemente diffusa nella società italiana e sulla quale qualcosa in più andava detto; al ritardo economico e alla debole presenza di quel ceto imprenditoriale che spesso era portatore di un "patriottismo del prodotto lordo", convinto com'era che l'industria dovesse servire per il compimento dell'indipendenza nazionale e il rilancio degli antichi fasti imperiali.
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