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Anno edizione: 2014
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La parte su Domenica in è un davvero tirata per le lunghe, le altre invece le ho trovate divertenti (soprattutto quella su Natale a Miami). Certo, non si può dire che manchi lo stile!
Molto simpatico, un argomento davvero interessante e divertente, ma purtroppo è un pò noioso da leggere.
libro brutto.Ripetivo quando descrive le situazioni e allunga il brodo in maniera noiosissima.Spesso cerca di usare l'ironia ma fa danni peggiori. Parla di autoreferenzialità della televisione ma la stessa puo' essere applicata allo scrittore quando ci racconta di non essere mai andato a vedere un film di Natale, snob che non si puo' permettere di esserlo.
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Nel prologo che precede queste quattro incursioni, tra il divertito e il malinconico, nei templi della bêtise contemporanea (ma Piccolo non la considera certo tale), l'autore parte da un fotogramma che ha la stessa consistenza di una "scena primaria": soggiorno di casa Piccolo, anno 1969, l'io narrante ha cinque anni. In questo caso, però, la Urszene non è un evento infantile traumatizzante, un vissuto nel rituale solipsismo assediato da inestinguibili sensi di colpa, ma invece una "visione" incistata nella retina e nel cervello di tutti coloro che hanno vissuto quegli anni, intrisa di quell'aura fra il ricattatorio e il seduttivo che sempre caratterizza ogni forma di retrospettiva nostalgica. Sullo schermo della tv di casa Piccolo si materializzano infatti le gemelle Kessler che cantano la sigla-tormentone di una vecchia Canzonissima: Quelli belli come noi. Per l'autore quell'irresistibile refrain "è il punto in cui si incontrano l'omologazione più (s)frenata e la felicità più nitida". Sarà questa specie di madeleine catodica a convincerlo dell'esistenza di una possibile, virtuosa congiuntura fra due modi di percezione del mondo: "il senso di allarme" (ovvero la paura di perdersi e annullarsi nella massa, nel coro indistinto della mandria televisiva e consumista) e "la volontà di partecipazione" (cioè la consapevolezza dell'insopportabile alterigia dello snobismo).
Se Jules Renard, nel suo Diario, ironizzava perfidamente sulla presunzione di chi ritiene che "les bourgeois, ce sont les autres", Piccolo si prodiga invece per esplorare e comprendere quell'universo che sembra tanto lontano e incomprensibile a certa élite intellettuale; per questo si aggira con pazienza e acribia in quei luoghi nei quali si è costretti a fare quelle "cose che non fareste mai". È come assistere al rovesciamento antifrastico dell'elegia finale di Blade Runner: "Io ho visto luoghi che voi umani non potete neanche immaginare", che Piccolo squaderna perchè questi luoghi invece li "attraversa", li viviseziona e poi ci comunica, con uno stile in cui la colloquialità non impedisce mai la riflessione lucida e spesso amara, che cosa succede "a indagare in questa parte oscura di noialtri, capire un po' di più sia di noi, sia degli altri". Allora, con sommo sprezzo del ludibrio di certa intellighenzia soi-disant, Piccolo assiste in studio a una puntata di Domenica in, visita gli autogrill più famosi d'Italia (anche se per motivi opposti) durante un affollatissimo weekend, vede il classico film di Natale della premiata coppia Boldi - De Sica proprio il giorno di Natale in un cinema romano stracolmo, si reca con bambine al seguito in quella specie di santuario del divertimentificio che è Mirabilandia.
Piccolo, in realtà, sembra faccia tutto questo anche per noi, tanto che, durante la lettura, più volte si prova per l'autore la stessa accorata simpatia, non esente da un fastidioso senso di superiorità, che si prova per le
cavie. Lo fa, tra l'altro, utilizzando una pedagogia del sorriso e della ragione, osservando e catalogando, con distaccato e consapevole understatement, le caratteristiche, i vizi e le virtù del contemporaneo mammifero italiano, per dirla con Manganelli. Lo fa con candore e orgoglio, rivendicando l'appartenenza alla categoria dei "felici molti", di quelli cioè che, se visti dalla prospettiva esclusivista, ma fallibile della "torre d'avorio", paiono irreparabilmente, ma superficialmente, dalla parte del torto: "Ridiamo alle spalle di tutti quelli che sono più ignoranti di noi, e così ci sentiamo più intelligenti. (
) È una scelta ideologica, la stessa che ho fatto tra quelli che dicono 'un attimino' e quelli che sbuffano e correggono, e affermano: 'Non sopporto quelli che dicono un attimino'; sto con i primi. È una vocazione". Il rischio, magari implicito, è che le avventure di Piccolo rieditino il demone antico dello snobismo antisnobistico. Ma questo retropensiero è esorcizzato da Piccolo stesso il quale, in questo libro che, pagina dopo pagina, si rivela anche come un reportage antropologico, spiega come proprio la dietrologia complottistica sia una specie di patto fondativo su cui si basa l'esistenza e la storia del nostro paese, "Convinto non solo che dietro ogni cosa ci sia qualcosa che la piloti e la determini, qualcuno che vuole che le cose vadano così; è l'intero paese è anche convinto di sapere cosa e perché ciò accade, anche se non lo sa".
Da quale parte lui si collochi, invece, lo ribadisce ancora meglio nel brillante epilogo. Con il perfido, ironico candore che è tratto consustanziale al suo stile (sembra un mix fra Mr. Chance, il protagonista di Oltre il giardino, e il bambino della favola andersoniana che svergogna le nudità monarchiche), racconta una veltroniana "notte bianca". L'io narrante, mentre una città intera è in preda a una specie di vertiginoso delirio culturale a trecentosessanta gradi, un'offerta smisurata di "vinici caposseli [che] cantavano canzoni, jazzisti [che] facevano assoli interminabili e scrittori [che] stavano per concludere maratone di lettura", si addormenta e fa un sogno di quelli che, come dice un personaggio di Altan, si vorrebbe non condividere.
Linnio Accorroni
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