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Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia
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Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia - Marina Sozzi - copertina
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Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia

Descrizione


È innegabile. Chi vive oggi, tra il XX e il XXI secolo, affronta più di un disagio nel rapportarsi alla morte. Lo spaesamento nella relazione con chi ha subito una perdita, l'imbarazzo a visitare un amico morente, il terrore di arrivare alla fine della vita non autosufficienti sono tutti indizi del fragile rapporto tra noi e l'idea della morte. Marina Sozzi rilegge la 'rarefazione' della nostra cultura funebre alla luce delle categorie antropologiche, ne ricerca le ragioni storiche e indaga i modi in cui la società è comunque riuscita a far fronte al trauma della morte, chiamando in soccorso 'supplenti' d'emergenza: la medicina, che si è presa cura dei morenti negli ospedali, la psicoanalisi e la psicologia, che hanno costruito il paradigma del 'lavoro del lutto'.
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Dettagli

2009
2 aprile 2009
XII-190 p., Brossura
9788842089247

Voce della critica

Il titolo (Reinventare la morte) indica l'obiettivo del libro, e il sottotitolo (Introduzione alla tanatologia) il percorso per arrivarci. Attraverso una brillante narrazione dei tanti temi e problemi del campo, Marina Sozzi offre una solida panoramica delle varie posizioni, facendo anche affiorare, in modo tenue e sfumato, come ad acquaforte, la propria prospettiva teorica. La modalità di porgere la tesi appartiene alla discrezionalità dell'autrice, che manifesta così il proprio stile, ma forse maggiore decisione avrebbe giovato all'impresa. Infatti, Sozzi padroneggia il campo con ottima competenza, e non solo guida e orienta il lettore nel dedalo del campo, ma dà anche un contributo maturo, importante e non privo di originalità.
Semplificando qui drasticamente le fini analisi di Sozzi, la sua tesi è la seguente: nel passato, da tempi lontani fino grosso modo alla prima guerra mondiale, in Occidente gli esseri umani avevano una cultura funebre che consentiva loro di affrontare abbastanza bene la morte. Per ragioni non ancora del tutto chiare, dalla Grande guerra la situazione è radicalmente cambiata, cosicché oggi le persone sono sottoposte a tensioni e difficoltà. La nostra cultura, "essendosi ritratta dalla gestione delle morte lascia i suoi membri soli a cavarsela da sé, e al contempo richiede loro di fare in fretta per tornare il prima possibile al tempo della produzione e del consumo".
Per spiegare questa anomalia, Geoffrey Gorer e Philippe Ariès hanno prospettato la tesi della "pornografia della morte": mentre per i bambini dell'età vittoriana la morte era nota e familiare, e il sesso era tabù, oggi per i nostri bambini il sesso non ha segreti ed è la morte a essere tabù. Questa tesi è smontata con abilità da Sozzi, la quale spiega la situazione odierna riprendendo la nozione di "densità culturale" proposta dall'antropologo Franco Remotti. Come un tessuto può essere "in certi punti più spesso e fitto, in altri piuttosto liso e inconsistente, e in altri ancora inesistente", così su certi temi una cultura può avere maggior cura e attenzione che si esprimono "in una maggiore ritualizzazione e regolamentazione". Le difficoltà attuali circa la morte deriverebbero dall'impoverimento della nostra cultura funebre: di qui l'urgenza di "reinventare la morte", ossia di elaborare una nuova cultura circa la morte.
L'idea della "densità culturale" è attraente, perché si presenta come avalutativa: mera constatazione del fatto che la cultura è una sorta di filtro attraverso cui gli individui si relazionano con la realtà considerata. Diversamente da quanto supposto, però, anche questa è nozione valutativa, perché presuppone che il tessuto denso sia anche migliore. Ma non sempre è così: lo è se fa freddo, ma se fa caldo è meglio quello a maglie larghe. Oggi potrebbe andare meglio una cultura più fluida di quella tradizionale, e un'eventuale (anche nuova) densità culturale potrebbe essere una pesante zavorra. Per stabilire quale cultura sia più adeguata bisogna precisare le circostanze, le aspettative soggettive, gli obiettivi e così via, un compito che rimando ad altra sede.
Osservo, però, che in almeno due occasioni il discorso è sviato dall'idea che una cultura funebre più densa consentirebbe di per sé di risolvere meglio alcune difficoltà attuali. La prima riguarda il modo di intendere il diritto dell'individuo di conoscere la propria diagnosi, ossia sapere se tale diritto sia subordinato o no alla volontà dell'interessato. In altre parole: la persona ha "diritto di sapere, se lo vuole" e, in modo simmetrico, ha "diritto di non sapere, se non lo vuole", oppure c'è solo il "diritto di sapere", perché una persona non può vantare la pretesa di restare ignorante su questioni essenziali che la riguardano come non può pretendere di avere il diritto di restare infante e immaturo? Sozzi non solo sostiene il "diritto di non sapere", ma afferma anche che ove si desse l'informazione contro la volontà dell'interessato non si compirebbe un progresso, ma "avremmo contribuito probabilmente a peggiorare la situazione attuale, ad aumentare la solitudine dei morenti e per di più avremmo ottenuto l'umiliazione dei medici".
Questa conclusione mi pare dipenda da una sopravvivenza non vagliata: l'idea che il dovere di informare comporti un'umiliazione della professione medica presuppone un sorta di reificazione della medicina che preclude cambiamenti dei compiti del medico. La tesi poi che l'informazione peggiorerebbe la situazione dell'interessato in quanto produrrebbe solo un aumento della solitudine del morente non tiene conto del fatto che in passato il senso di solitudine era, forse, meno accentuato perché il morente era visto come una sorta di emigrante in terre lontane: parte per un po' di tempo ma poi lo si ritrova nell'al di là. Oggi, dissolta la credenza metafisica e per altri fattori, non è più così, ma è difficile credere che si aiuti il morente celandogli la diagnosi: è la carenza di verità che rende più soli, non l'atto contrario che rivela l'inserimento nella trama sociale e offre anche al morente la possibilità di sistemare eventuali faccende ancora aperte.
L'altro punto riguarda il diritto di decidere sul fine vita, ossia se l'interessato abbia titolo o no di scegliere sulla propria morte anche anticipandola rispetto all'esito della malattia. Sozzi riconosce che la prospettiva favorevole all'ampliamento della scelta gode meriti storici, ma osserva come "la libertà di scelta del morente rischi, nel contesto storico in cui viviamo, di essere utopistica" e astratta. Nel concreto, l'autodeterminazione "si presenta, per i cittadini, come un coacervo di aspirazioni e inevitabili frustrazioni (… cosicché la) forte enfasi posta sull'autonomia dell'individuo" sarebbe oggi la fonte per cui "i cittadini del nostro mondo sono più soli e disorientati che autonomi". Il principio di autonomia, pertanto, sarebbe pericoloso perché molti morenti sarebbero indotti a credere che sia "lesiva della dignità umana anche la dipendenza creata dalla malattia, il bisogno di essere curati e accuditi da altri (…) Il rischio di riconoscere legittimità all'eutanasia in una società con una cultura della morte molto povera, esigua, è quello di fornire, ancora una volta, una risposta tecnica alla mortalità umana, provocando l'ulteriore impoverimento di una trama culturale già usurata". Bisogna invece potenziare le cure palliative, la cui cultura preclude che la dipendenza da malattia possa mai ledere la dignità umana, creando così un'alternativa all'eutanasia: ecco la via giusta su cui "reinventare la morte".
Solo una tacita sopravvivenza culturale può farci credere e a priori che la dipendenza da malattia non leda mai la dignità: di fatto, superati certi livelli ciò accade, e quando capita l'eutanasia può essere complementare, non alternativa, alle cure palliative; ove queste non bastassero più, può a date condizioni entrare in campo il diritto di anticipare la propria morte. Solo presupponendo che i valori tradizionali colgano l'"ideale" si può sostenere che tale diritto comporti un impoverimento della nostra cultura funebre. Al contrario, esso la arricchisce di un nuovo valore che può essere riconosciuto appieno solo se si è disposti e pronti a cambiare gli atteggiamenti ricevuti. È in questa diversa direzione che bisogna "reinventare la morte": lascio a studiosi competenti e capaci come Marina Sozzi il compito di vagliare se questa proposta può portare a una cultura "buona", anche se magari meno "densa" di quella tradizionale.
Maurizio Mori

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