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Anno edizione: 2017
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152 p. paperback 9788842092629 Ottimo (Fine) .
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Questo saggio sull'Identità di Francesco Remotti, professore di antropologia culturale, è interessante e ci offre ottimi spunti di riflessione, però solleva anche delle problematiche molto complesse. E' stimolante lo schema che parte dall'Identità e, con una vasta gamma di gradazioni, arriva fino all'Alterità. In alcune pagine si addentra in argomentazioni filosofiche un po' troppo per addetti ai lavori. In conclusione egli propende per il "Riconoscimento" dei "noi" e degli "io" e non per l'"Identità", che è inafferrabile, rifiuta il rapporto con "gli altri" e quindi può essere molto pericolosa: non a caso la definisce una parola avvelenata.
Recensioni
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Arnold Toynbee, parlando del nazionalismo, ebbe modo di citare Lucrezio con una integrazione: "'Tantum potuit religio suadere malorum'. Sostituite a religio la parola nazionalismo e avrete nominato il Moloch della nostra epoca". Potremmo a nostra volta sostituire alla parola nazionalismo quella di identità per individuale l'oggetto polemico dell'ultimo libro di Francesco Remotti, non a caso intitolato L'ossessione identitaria. L'identità, questo Moloch del linguaggio (e non solo) politico-mediatico della nostra epoca è infatti aggredita da Remotti (che torna sull'argomento dopo quattordici anni, cfr. Contro l'identità, Laterza, 1996) con l'intento di operare un lavoro di smontaggio, o meglio di eliminazione definitiva, del termine dal repertorio delle scienze umane e in particolare dell'antropologia. Le ragioni di quest'intento demolitivo sono pienamente esplicitate nell'ultimo capitolo del volume che, introduzione a parte, è forse quello da cui bisognerebbe cominciare a leggere questa raccolta di saggi scritti nell'arco di tre lustri.
Tali ragioni, in sintesi, sono le seguenti. Il mondo di oggi è dominato dalla logica del capitalismo, che ha creato una situazione di squilibrio precedentemente sconosciuta nelle sue proporzioni. Enormi ricchezze da una parte, enormi povertà dall'altra. Individui sradicati dalle loro comunità, gruppi minacciati nella loro esistenza, logica del profitto portata a livelli di esasperazione. Minaccia ambientale, sociale, "impoverimento culturale". Cosa resta se non rifugiarsi nel "mito" dell'identità, ovvero nell'"errore" di difendersi dagli "altri" proclamando l'esistenza di un noialtri diverso da un voialtri o da un quegli altri? Cosa resta se non trincerarsi dentro l'illusione di poter esistere indipendentemente dalla dimensione dell'alterità (che fa parte invece dell'esistenza di tutti), e nell'illusione della propria "identità a noi stessi"? È proprio questa riflessione, contenuta nell'ultimo capitolo del libro, che rende ragione in profondità dell'"ossessione identitaria", argomentazione forse un po' velata e coperta dall'articolata trattazione filosofica che l'autore dedica al Moloch della nostra epoca. Infatti, il libro di Remotti, di cui condividiamo il novantanove per cento delle tesi (del restante uno per cento parleremo dopo), assume quasi subito la forma del saggio filosofico, nel quale l'autore esplora la nozione di identità in maniera fortemente astratta, filosofica appunto. Remotti passa attraverso quattrocento anni di pensiero filosofico moderno per mostrare tutte le aporie che filosofi come Pascal, Locke, Hume e Hegel hanno scovato nel concetto di identità.
Laddove la discussione si fa più interessante (per un antropologo) è quando Remotti ci ricorda cosa pensava Hegel dell'identità e del riconoscimento. Il riconoscimento è una relazione, l'identità è fissità, illusione, freddo mortale. Nulla è fermo (identico), tutto è relazione per il filosofo tedesco: altrimenti non si spiegherebbero il movimento, la trasformazione, la storia. Il riconoscimento (se io sono io e tu sei tu è perché ci riconosciamo reciprocamente e ciascuno non "sta" nella propria identità) è il motore vero della dinamica sociale, storica, politica; non la chiusura in una gabbia identitaria che genera solo illusioni e che non apre alla relazione. Attraverso Hegel, Remotti trasferisce in effetti la prescrittività della filosofia (che tratta l'identità come una nozione qualunque, suscettibile cioè di infilarci in sensi e controsensi) sul terreno sociale, dove, e questo è un punto importante, l'identità comincia a funzionare diversamente che nella testa dei filosofi. Nel suo attacco all'uso della nozione di identità, Remotti vuole distinguere quest'ultima da una serie di altri fattori, elementi, istanze, li si chiami come ci pare. Riconoscimento, come abbiamo visto, e poi cultura, la nozione di "noi" e, forse, avrebbe potuto aggiungere anche religione e etnicità. È qui che troviamo una prima difficoltà. La nozione di identità serve infatti spesso a sintetizzare, al pari di altre, una volontà di distinguersi, di essere diversi, di essere riconosciuti per quel che si è (la "nostra", la "loro" cultura). Beninteso, non piace nemmeno a noi questo andazzo identitario, ma è perché non ci piace neppure l'andazzo culturalista, la "ricerca delle radici" costi quel che costi, l'integralismo religioso, e così via. Non sono tutte queste altrettante forme di "identitarismo"?
Gli esseri umani in società, come aveva ben capito Durkheim, non ragionano sulla base della logica di Aristotele (A=A e quindi A≠B), ma sulla base di emozioni collettive che li portano a compiere riti per rendere omaggio a un totem, un dio, riti che null'altro sono se non la proiezione del proprio gruppo il quale, così facendo, esce rafforzato nella sua
possiamo dire identità? Quell'uno per cento su cui non siamo d'accordo con Remotti è appunto il suo radicale rifiuto di una parola, quasi che, eliminando le parole scomparissero i fenomeni che quelle parole indicano. La nozione di identità può, deve essere senz'altro criticata per l'abuso che se ne fa, segnalata per la sua vaghezza, condannata senza appello per la sua spesso bieca strumentalizzazione. Ma è anche una nozione che, tutto sommato, serve, come tante altre parole del lessico delle scienze umane (e anche di tutti giorni), a "sintetizzare" dei processi che non sono "identitari e basta", ma sono culturali, politici, religiosi.
L'identità come parola non va buttata via, come non vanno buttate via parole come totemismo, sacrificio, gruppo, religione, e specialmente cultura, parole che hanno creato, quando le si è aggredite per l'uso spesso improprio che se ne è fatto, più problemi di quanto ne creassero quando venivano lasciate nel cassetto. In fondo, come tutte quelle altre parole, anche identità "copre" una serie di significati vastissimi. Ci serve per parlare di Hegel (anche lui ne parlava) come dei conflitti "etnici" (etnia, altra parola critica), delle crisi esistenziali come del modo di proporsi sulla scena mediatica, politica, religiosa, del business turistico e quant'altro. È strano che a Remotti non sia venuto in mente Wittgenstein, che pure costituisce un punto di riferimento in quasi tutti i suoi lavori. Perché non potremmo, noi scienziati sociali e specialmente noi antropologi, tenerci questa paroletta per individuare una serie di fenomeni che, come diceva il filosofo di Vienna, mostrano delle "somiglianze di famiglia": fenomeni che sono diversi, ma che ci sembrano avere tutti qualcosa in comune? Ugo Fabietti
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