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Giustizia. La parola ai magistrati
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Giustizia. La parola ai magistrati - copertina
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Giustizia. La parola ai magistrati

Descrizione


Prendiamo una parola a caso, prescrizione: "accade che tale termine (indicativo dell'estinzione di un reato per decorso del tempo) venga sempre più spesso considerato sinonimo di 'assoluzione' (cioè di esclusione della responsabilità o, addirittura, del reato) e che su questa confusione si giochino le aperture dei telegiornali di maggior ascolto e il compiacimento di politici di primo piano, finalmente appagati nel vedere giudizialmente certificata la propria illibatezza. Il peso della parola deformata è, in questo caso, decisivo". È un esempio come altri dell'uso disinvolto e ingannevole di una parola della giustizia, di cui si è smarrito il senso e che è stata impudicamente strumentalizzata. Nell'opinione pubblica spesso a prevalere sono la cattiva informazione, l'equivoco e il vero e proprio errore. In queste pagine, sedici magistrati offrono un vocabolario di base per capire cos'è concretamente la giustizia e come funziona. Un'agile cassetta degli attrezzi per muoversi fra norme, leggi e codici. "È un'operazione di chiarezza e di trasparenza. Anche per evitare che un uso deviato delle parole riproponga scenari oscuri, già conosciuti dalla storia".
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Dettagli

2010
23 settembre 2010
XI-224 p., Brossura
9788842093862

Voce della critica

Livio Pepino è un grande organizzatore di cultura. Conosciuto da tempo come direttore di "Questione Giustizia", è anche condirettore di "Diritto, immigrazione, cittadinanza" e del periodico "Narcomafie". Dirigente storico di Magistratura democratica (Md), di tale associazione è stato presidente e segretario nazionale, e l'ha rappresentata al Consiglio superiore della magistratura (Csm). Il suo impegno si è caratterizzato in generale per la continua attenzione ai temi della giustizia, più in particolare a quelli di maggiore rilevanza sociale, dai diritti civili all'immigrazione, dal lavoro al carcere. Così ha prodotto o curato importanti pubblicazioni in tema di criminalità organizzata di stampo mafioso, di tossicodipendenze, di prospettive di riforma del diritto penale, oltre che innumerevoli articoli – anche sulle tematiche di ordinamento giudiziario – sia sulle riviste che dirige che su alcuni quotidiani. Ovviamente insieme e intorno a queste sue esperienze sono cresciute tante persone, specialmente magistrati, consapevoli dell'importanza della giurisdizione per la difesa dei diritti fondamentali dei ceti sottoprotetti e quindi anche della necessità di una giurisprudenza all'altezza di un simile compito.
Così oggi è in libreria questa pubblicazione a più voci, espressione appunto di quelle esperienze, per la quale Pepino ha scritto oltre che l'introduzione anche una riflessione, tanto polemica quanto approfondita, sulla "politicizzazione" di giudici e pubblici ministeri. La politicizzazione è del resto una parola ormai magica, ripetuta ossessivamente per far credere che da qui derivi la caduta di credibilità della giustizia. Viene usata in particolare dall'attuale presidente del Consiglio, che in tutte le sedi, essendo personalmente pressato da vari processi, denuncia i magistrati "politicizzati" (i pubblici ministeri, in particolare, ma non solo; più in generale tutti gli organi di garanzia): "Quando con delle sentenze basate sul ribaltamento della realtà si vuole ribaltare anche le decisioni del popolo, sostituendo chi è stato eletto democraticamente, questo si chiama con una parola sola: volontà eversiva e eversione" (Ansa, L'Aquila, 29 maggio 2009). Già all'inizio del decennio, nell'impossibilità di spiegare come mai tanti magistrati, pubblici ministeri, Gip, giudici di primo e secondo grado, in diverse fasi processuali, lo avessero ritenuto colpevole di gravi reati, malgrado avesse giurato sulla testa dei propri figli di essere innocente, Silvio Berlusconi, intervenendo in una sede "amica", la prima assemblea nazionale di Azzurro donna, aveva pensato bene di organizzare una contro-storia mediatica. "La sinistra – disse in quell'occasione – ha messo in pratica quello che in tutti i regimi comunisti è stata una regola: l'utilizzo della giustizia a fini di lotta politica". La strategia del Partito comunista era questa: "Infiltriamo, nella magistratura, via via uomini nostri. Ed ecco tanti giovani mandati a fare i magistrati, che entrano nella magistratura, che diventano pretori del lavoro (…) pretori d'assalto (…) e mettono le mani sulle principali Procure della Repubblica (…) E tutto si prepara con una corrente che, esplicitamente, si dichiara organica alla sinistra comunista: la corrente di Magistratura democratica" per la quale "il fine della giustizia non è applicare le leggi" ma "quello di fare la rivoluzione, di abbattere lo stato borghese" (cfr. L'Italia che ho in mente, Mondadori, 2000). Di qui le proposte delle destre al governo per la riforma della giustizia.
La cui crisi ha ovviamente ben altre cause (come è ben altra la storia di Md), come la lettura del libro chiaramente evidenzia. La stagione che attraversiamo è particolarmente difficile. Quando nel dibattito politico si discute di riforma della giustizia normalmente non ci si riferisce alle misure indispensabili per dare a un servizio ridotto ormai ai minimi termini una qualche efficienza. Ci si confronta e ci si scontra sulle leggi "ad personam", fra le quali i vari "lodi", ufficialmente desinati a salvaguardare dai processi penali le più alte cariche dello stato, in pratica una sola di esse. Ci si riferisce alla riduzione dei poteri del pubblico ministero, all'introduzione di un secondo Csm per questi magistrati, al cambiamento della composizione di tale organo per ampliare la rappresentanza dei partiti, alla facoltatività dell'azione penale, a commissioni parlamentari di inchiesta sull'attività di pubblici ministeri e giudici che si sono a vario titolo interessati di processi nei quali era ed è coinvolto il presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi. C'è davvero il rischio, in conseguenza di tutto ciò, che si perda di vista quella che è davvero la crisi della giustizia, che la si lasci andare verso difficoltà sempre più gravi.
Già della parola "riforma" va precisato il significato. Non ogni modifica di una previsione normativa è una riforma. Tantomeno lo è una norma che, in nome di un "nuovismo" bugiardo, riporta la regolamentazione di una situazione indietro di anni. Le riforme sono trasformazioni radicali, dettate da norme nuove, con il sacrificio di interessi vecchi e settoriali in nome della tutela di interessi tendenzialmente generali. Per questo una buona ricognizione in merito alle parole e alle tematiche che hanno a che fare con una vera, democratica riforma della giustizia, con la denuncia chiara delle strumentalizzazioni e l'indicazione di soluzioni possibili dei problemi reali, appare indispensabile, anche per ovviare alla perdita di senso delle parole prodotta da un quindicennio di propaganda condotta da soggetti insofferenti al principio di legalità. In questa ricognizione si sono così cimentati giudici e pubblici ministeri, non tutti di Md.
Ecco, allora, le tematiche, tante e delicate, all'ordine del giorno. Chi sono i giudici e i pubblici ministeri, quali sono i loro diversi mestieri (e le loro retribuzioni), qual è il senso della loro indipendenza e quali sono i loro possibili errori, quelli che è possibile correggere con gli interventi previsti dalle regole processuali e quelli che richiedono anche una riparazione pecuniaria? Perché nell'attività giurisdizionale vi è un'aspirazione irrinunciabile alla prospettiva dell'uguaglianza, messa quotidianamente a rischio in tante difficili prove? Da dove arriva la scelta del garantismo, termine che sintetizza una scelta in favore di un sistema di regole destinate a limitare l'azione dei pubblici poteri in campo processuale, e che ha ricevuto un esplicito riconoscimento costituzionale con la riforma del "giusto processo"? Quanto al processo penale, entrano poi in gioco l'obbligatorietà dell'azione, i diritti riconosciuti alla difesa, le ragioni della custodia cautelare, la necessità delle intercettazioni, le cause della sua lunghezza e delle ricorrenti prescrizioni. Il dramma del carcere, oggi esasperato non dall'assenza di una politica ispirata ai principi costituzionali ma dalla scelta di emarginare e se necessario restringere i ceti sottoprotetti, i "briganti" che mettono a rischio la sicurezza della società dei "galantuomini": il tutto in nome del mito reazionario della certezza della pena. Vi è, infine, il difficile ma necessario rapporto fra giustizia e informazione, nonché la relazione fra la legittimazione della magistratura e il consenso popolare. Se le interferenze reciproche fra giurisdizione e informazione, ciascuna con le sue esigenze, sono una tematica centrale nelle democrazie moderne, cosa devono o non devono fare giudici e pubblici ministeri? La risposta oggi possibile è che, rivendicando i propri spazi di intervento, contrappongano informazione a informazione, per un effettivo e corretto controllo pubblico sull'attività della magistratura.
Abbiamo insomma un insieme di questioni rese difficili dall'assenza di una politica riformatrice della giustizia, un ampio ventaglio di temi all'ordine del giorno, che vengono affrontati da chi li conosce a fondo per esservi quotidianamente coinvolto. Che cos'è dunque, concretamente, la giustizia, e come funziona? La parola, secondo il titolo del libro, la prendono sedici magistrati, gli autori dei vari saggi del libro, per spiegare i problemi della giustizia in Italia, quali sono le arretratezze e le relative cause, quali sono le strumentalizzazioni interessate e quali invece gli interventi necessari per un reale cambiamento.
Giovanni Palombarini

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