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Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana
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Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana - Luigi Ferrajoli - copertina
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Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana
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Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana

Descrizione


I poteri, lasciati senza limiti e controlli, tendono a concentrarsi e ad accumularsi in forme assolute: a tramutarsi, in assenza di regole, in poteri selvaggi. Di qui la necessità non solo di difendere, ma anche di ripensare e rifondare il sistema delle garanzie. Solo un rafforzamento della democrazia costituzionale, attraverso l'introduzione di nuove e specifiche garanzie dei diritti politici e della democrazia rappresentativa, consente infatti di salvaguardare e di rifondare sia l'una che l'altra. L'idea elementare che il consenso popolare sia la sola fonte di legittimazione del potere politico mina alla radice l'intero edificio della democrazia costituzionale. Ne derivano insofferenza per il pluralismo politico e istituzionale; svalutazione delle regole; attacchi alla separazione dei poteri, alle istituzioni di garanzia, all'opposizione parlamentare, al sindacato e alla libera stampa; in una parola, rifiuto del paradigma dello Stato costituzionale di diritto quale sistema di vincoli legali imposti a qualunque potere.
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Dettagli

2011
5 maggio 2011
88 p., Brossura
9788842096467

Voce della critica

È tempo di bilanci. La lunga stagione del berlusconismo, considerata – probabilmente troppo presto – in via di esaurimento, sollecita riflessioni sulla seconda repubblica e sulle trasformazioni sociali, culturali, antropologiche che ci lascia in eredità. Di qui l'ingente numero di pubblicazioni su Berlusconi e il suo sistema di potere (Ceri, Ginsborg), sul "dispotismo democratico" (Ciliberto), sull'"egemonia sottoculturale" (Panarari), sulla "democrazia carismatica" (Mauro-Zagrebelsky). Poteri selvaggi, l'ultimo libro di Luigi Ferrajoli, affronta anch'esso il tema della crisi della democrazia italiana, interpretandola come l'esito di un processo di "decostituzionalizzazione" che non si manifesta solo nella violazione e contestazione di singole disposizioni costituzionali, ma nella pretesa dei poteri pubblici e privati di godere di una "libertà selvaggia" (quella che Kant riferiva allo stato di natura), sottraendosi a qualsiasi limite e vincolo giuridico.
Uno dei miti che l'autore si preoccupa di sfatare è che il rapporto tra costituzionalismo e democrazia sia concepibile come un gioco a somma zero. Per Ferrajoli, al contrario, "le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali sono anche garanzie della democrazia" e i "nemici della democrazia costituzionale (…) sono anche i principali nemici, mascherati da amici, della democrazia politica". Come avrebbero dovuto insegnare l'ascesa del fascismo e del nazismo, una democrazia priva di limiti è costantemente esposta al rischio di suicidarsi, comprimendo o cancellando, a maggioranza, gli stessi diritti politici. Non solo. Quando non sono adeguatamente garantite le libertà di parola, riunione, associazione, ma anche diritti sociali fondamentali come il diritto all'istruzione e a un'informazione non manipolata, vengono meno i presupposti di un esercizio consapevole dei diritti politici e il "governo del popolo" si tramuta nel potere di pochi di orientare e manipolare a proprio vantaggio la pubblica opinione.
Dopo avere ricostruito il paradigma della democrazia costituzionale, in forza del quale non esistono più poteri assoluti e gli stessi parlamenti sono vincolati al rispetto di norme sostanziali, oltre che formali, sulla produzione del diritto, Ferrajoli distingue due ordini di fattori, "dall'alto" e "dal basso", che concorrono a determinare l'attuale crisi della democrazia. Tra i primi c'è la personalizzazione della rappresentanza, favorita da sistemi elettorali maggioritari e da modelli che prevedono, formalmente o meno, l'elezione diretta del capo del governo. Vi sono poi la confusione e concentrazione dei poteri che si realizza al vertice dello stato, dando vita a un'inedita forma di "patrimonialismo populista"; la crescente integrazione dei partiti nelle istituzioni e la perdita della loro funzione rappresentativa; il controllo politico e proprietario dell'informazione. I fattori di crisi "dal basso", in parte correlati ai precedenti, consistono nel conformismo sociale e nel razzismo diffuso, effetto della "politica della paura" promossa dai media; nella tendenziale dissoluzione dell'opinione pubblica, che si determina quando "ciascuno si interessa alle questioni pubbliche assumendo come parametro di giudizio e di valutazione, anche nell'esercizio del diritto di voto, soltanto i propri personali interessi"; nel declino della partecipazione dei cittadini all'interno dei partiti; nella trasformazione della libera informazione in "fabbrica del consenso".
Ciò che emerge è un ritratto realistico, sconsolato, di un paese moralmente – oltre che politicamente – allo sbando. Dove la corruzione del ceto dirigente rispecchia e riproduce, in un gioco di legittimazioni incrociate, la corruzione dei cittadini che lo hanno espresso. E la politica populistica "retroagisce, a livello sociale e culturale, sotto forma di una quotidiana diseducazione di massa", che si compie attraverso "l'abbassamento della morale pubblica, l'esaltazione e l'esibizione, nel linguaggio e nella pratica politica, della volgarità, del turpiloquio, dell'ignoranza e del maschilismo".
A questa analisi sui fattori di crisi della democrazia Ferrajoli fa seguire la proposta di una serie di possibili rimedi. Per contrastare la deriva plebiscitaria che si esprime nella personalizzazione della rappresentanza e nell'interpretazione del capo come espressione organica della volontà popolare, si tratterebbe innanzitutto di superare "l'ubriacatura maggioritaria" degli ultimi vent'anni, tornando a un sistema elettorale proporzionale in grado di dare voce alla varietà degli orientamenti politici presenti nel paese. Ferrajoli non si limita a invocare l'abolizione delle parti più contestate del "porcellum" (le liste bloccate, il premio di maggioranza), ma propone di vietare per legge l'indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Più in generale, l'invito è a effettuare "un sereno bilancio degli effetti perversi del bipolarismo", che ha distrutto i partiti; ha favorito lo schiacciamento al centro dei programmi politici; ha ridotto la rappresentanza delle formazioni minori, consegnando loro in compenso un enorme potere di ricatto sulla coalizione di cui fanno parte; ha instillato nel senso comune l'idea distorta – già confutata da Kelsen – che la democrazia consista nella "scelta di un capo". Si tratta di considerazioni fortemente "inattuali", se si pensa alla velocità con cui è uscita di scena la proposta Passigli di referendum elettorale, o alla sorprendente difesa del bipolarismo con cui si conclude un volume come La democrazia dispotica di Michele Ciliberto (Laterza, 2011), che nella sua parte critica intrattiene parecchi punti di contatto con le tesi di Ferrajoli.
L'opzione per il parlamentarismo e per il sistema proporzionale appare coerente con la pars destruens dell'analisi di Ferrajoli, al pari degli ulteriori rimedi contro lo svuotamento della rappresentanza da lui prospettati: l'introduzione di più efficaci garanzie contro i conflitti di interessi tra politica ed economia; la rifondazione in senso democratico e partecipativo dei partiti; una riforma del sistema dell'informazione finalizzata a superare l'indebita confusione di due diritti "strutturalmente distinti e tra loro virtualmente in conflitto" come la libertà di informazione e manifestazione del pensiero (che è un diritto fondamentale) e la proprietà dei media (che è un diritto patrimoniale, logicamente subordinato al precedente).
Sono tutte proposte che meriterebbero di essere esaminate e discusse nel dettaglio. Mi limito a richiamare l'attenzione sull'idea (già avanzata dall'autore in Principia iuris) di stabilire per legge l'incompatibilità tra cariche di partito e cariche elettive, come strumento per ricondurre i partiti alla loro originaria natura di luoghi di discussione, elaborazione politica, controllo dal basso dell'operato dei rappresentanti. È facile immaginare obiezioni "realistiche" a una simile proposta. Eppure, già esistono associazioni e gruppi che si mobilitano per esercitare pressioni sui rappresentanti, senza porsi l'obiettivo della gestione diretta del potere. Siamo abituati a interpretarli come "movimenti" e a riservare loro un ruolo residuale. Basterebbe rileggere la costituzione per scoprire che gli stessi partiti altro non dovrebbero essere che "libere associazioni di cittadini" che concorrono "con metodo democratico" a determinare la politica nazionale.
Valentina Pazé  

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