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Interrogarsi su che cosa sia la "bibliofollia", come fa il francesista Alberto Castoldi, dove conduce? Innanzitutto a ritagliare una fisionomia, quella del bibliomane, persona (o personaggio?) dalla passione infuocata, in pendolare oscillazione tra sogni totalizzanti e sfibranti impotenze. E poi a cogliere quanto quella passione partecipi dell'atmosfera del lutto.
Il bibliomane o il meno rozzo bibliofilo o il più preoccupante bibliofago è un essere della morte. Il suo istinto, come quello di tutti collezionisti, si nutre di volontà d'annientamento dell'oggetto amato e perfino di se stesso. Per il libro può uccidersi, ma, pur di farlo suo, può trasformarsi in assassino. Il mondo coincide con ciò che ha, infatti egli fa "del possesso la geografia stessa dell'io". Trascinato dal mito della completezza e dell'unità, il bibliofilo (più del bibliomane) sperimenta la libricité. Il termine che risale ad Asselineau, ed è paronomasia di lubricité esprime il desiderio sensuale di possedere il libro, toccarne il bianco, annusarne l'odore, violarne le superfici con il tagliacarte. La passione per i libri nasconde impulsi violenti? Secondo la psicoanalisi sembrerebbe di sì. Melanie Klein ha sostenuto che il libro è il corpo materno divorato nella lettura.
Quanto sia pervasiva la dimensione del lutto risulta evidente se si guarda il libro dal punto d'osservazione di chi lo crea. Lo scrittore, infatti, sa di essere "abitante da sempre di un cimitero, quello della letteratura, ma al tempo stesso custode di questo mondo defunto". Del resto, "sottrarre all'assenza la scrittura, farla nascere, significa, esattamente come per gli esseri viventi, consegnarla alla morte, riaffidarla all'assenza: l'intellettuale fa da tramite fra due assenze". I libri sono però una perenne sfida, perché, secondo un'idea di Platone, la "scrittura agisce anche se postuma". Ma se si svincolano dal tempo, non per questo i libri si esentano dal giocare con la morte o con i suoi simulacri. Si valutino gli effetti sui lettori. Il più frequente è l'ibernazione dello sguardo, perché "quanto più frequentiamo i testi, tanto più questi ipotecano la nostra esperienza". Il più grave è vero analogo della morte e consiste nello stravolgimento dell'"identità personale", come capita a Don Chisciotte o a Madame Bovary. Proprio sui personaggi dei libri può riversarsi l'istinto di morte dello scrittore si pensi a Tolstoj verso Anna Karenina che fa di loro "delle vere e proprie vittime". Talvolta l'istinto agisce contro il testo stesso: è la situazione in cui si trovano i libri mai nati o distrutti per volontà dell'autore. Ne conosciamo parecchi, ma sappiamo anche che talvolta, per le "inadempienze" di parenti, amici e mecenati, alcuni sono sopravvissuti è capitato con i libri di Virgilio, di Mallarmé, e soprattutto con quelli di Kafka, salvati da Max Brod (ma non da Dora Dymant, che annienta l'ultima parte dei Diari).
Si pensi infine alla biblioteca. Come suggerisce Castoldi, la sua funzione non è solo quella di assicurare prestigio e modellare identità culturali, ma, adeguatamente testimoniato dalla biblioteca di Montaigne, è anche quello di proteggere chi l'ha creata. Separarsi dal mondo essere morti al mondo è il sogno di ogni bibliomane. Così per Sartre la biblioteca è un eden, il "luogo privilegiato dell'infanzia"; per Borges invece la "Biblioteca di Babele" è un universo-trappola. L'ambivalenza suscita sentimenti ancipiti: alla smania dell'accumulo si sovrappone la furia di distruggere e così spesso le biblioteche attirano le fiamme, come forse è accaduto per la più grande della storia, quella di Alessandria. Ma i roghi volontari dei libri, per esempio quello ordinato dai nazisti nel 1933 o immaginato da Bradbury in Fahrenheit 451, sono comunque segnali preoccupanti. La volontà di distruggere i libri di interrompere il dialogo con i morti esibisce il deprimente progetto "di imporre un'unica verità" ai vivi.
Andrea Giardina
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