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Il poeta Guido Oldani propone qui una lunga ed ironica meditazione, "che è anche una lettura del mondo", sulla proliferazione minacciosa degli oggetti, che hanno finito per spodestare la natura, per ingabbiare l'uomo e per modificare, trasformandole, arte e poesia. Si tratta di un testo provocatorio e paradossale, spesso addirittura parodistico, perché la "valenza ironica è forse l'unica forza rivoluzionaria riscontrabile nella contemporaneità". Nel ventesimo secolo ha avuto inizio una urbanizzazione esasperata, che ha sconvolto equilibri naturali e sociali millenari, producendo eventi sismici planetari nelle coscienze e nei comportamenti umani. La poesia italiana non si è sottratta a questo cataclisma "terminale", a partire dal futurismo con la sua "effervescenza ottimistica" e veloce, per passare alle "cose polverose, semiinutili, nostalgiche" dei crepuscolari, e per arrivare - attraverso "gli imprescindibili" ermetici e surrealisti- ai prodotti odierni: "oggetti-diluvio" del neorealismo, con l'ansia ideologica e politica del riscatto; e collasso degli oggetti nella neoavanguardia, ipnotizzata dal significante. Dopo il 2000, tutto si artificializza, e la natura imita gli oggetti: "Non più un aereo assomiglia a un gabbiano, ma viceversa, per sempre sarà il viceversa". In questo modo "si rovescia completamente la lettura estetica del mondo". Come reagire, come osare una ribellione? Oldani ha un solo suggerimento da dare: l'ironia. Al dilagare dell'oggettismo si può e si deve rispondere con il sogghigno sarcastico, con lo sberleffo. Se anche l'immaginario è diventato oggettofilo e oggettotropico (i popoli non emigrano per fame, ma per impossessarsi del miraggio della "roba"), l'unica libertà concessaci è il rifiuto. La scrittura di Oldani, a partire da queste premesse, si fa canzonatoria e pungente, irridendo pubblicità, psicanalisi, economia, religione e, ovviamente, la poesia attuale, paludata e salottiera, stracolma di "oggetti", ma definitivamente morta.
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