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Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto - Giulio Ferroni - copertina
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ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto

Descrizione


Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto: due grandi poeti, due amici, due uomini comuni. Uniti dalla passione per l'arte, hanno condotto una vita lontano da ogni ostentazione intellettuale, dimostrando che la letteratura più vera resiste entro la più semplice, disponibile e amichevole umanità. Questo libro vuole essere un omaggio alla grandezza dei due letterati - scomparsi l'anno scorso - e a un linguaggio poetico caratterizzato dalla capacità di toccare i nodi più difficili del pensiero e della cultura con un'immediatezza comunicativa fuori dal comune.
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Dettagli

2013
21 febbraio 2013
142 p., Rilegato
9788842819066

Voce della critica

  Secondo una definizione incrociata di Margherita Ganeri (1998) e Monica Jansen (2002), nel dibattito sul postmoderno Giulio Ferroni finirebbe a ricoprire il ruolo dell'"apocalittico" non integrabile, risultando il critico che più di tutti ha constatato la "condizione postuma" della letteratura odierna, a partire dal volume Dopo la fine (Einaudi, 1996). Dopo la fine fungeva da exitus al discorso decennale della Storia della letteratura italiana (Einaudi, 1991) e prospettava un panorama culturale sfregiato in modo irreversibile. Secondo Ferroni, la nuova comunicazione mediatica onnifagocitante, unita a un consumismo sempre più barbarico e antiecologico (specchio del berlusconismo dilagante senza barriere), dà fatalmente spazio a una "postumità" negativa della letteratura, che viene realizzata ogniqualvolta si produce un ammiccante gioco di ricami e richiami, senza più la volontà di incidere in modo forte sulle coscienze dei lettori e indicare loro strade prima impensate. A questo rischio vuole sottrarsi, a distanza di diciassette anni da Dopo la fine, Gli ultimi poeti: i protagonisti in absentia di questo racconto di vite parallele, che non si sono mai incrociate nella storia empirica, se non per reciproche dichiarazioni di stima e recensioni, sono Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Stavolta però Ferroni dismette in parte la modalità discorsiva del saggio e quasi del tutto il pamphlet, che caratterizzava Scritture a perdere (Donzelli, 2010). Lì l'attenzione era quasi tutta per le brutture di una cultura e una letteratura fallimentari (tutte italiane), entrambe congedate con accenni minimi ma pungenti, come spilli. La forma adottata in Gli ultimi poeti è invece quella più incisiva dell'analisi testuale in forma discorsiva, condotta secondo criteri tematici e non seguendo pedissequamente la cronologia. A brevi sezioni di liriche e brani in prosa si alternano i commenti di Ferroni, il quale implicitamente vuole dirci, riecheggiando Scritture a perdere, che la vita è troppo breve per passarla ad analizzare al microscopio scritture sciatte, convenzionali e diluite: solo la Beltà o il Sublime, o il loro presentimento, meritano il lavoro capillare dello studioso di letteratura, senza cadere nelle griglie di un'estetica rigidamente normativa o moralizzatrice. Ferroni si spinge anche oltre, ritenendo che il suo commento non debba procedere nell'esplicare il parallelismo che è la tesi alla base di Gli ultimi poeti: "Non ho insistito nel sottolineare in modo diretto le convergenze e gli echi tra i testi citati dai due poeti, pur tanto diversi tra loro; certo lo stesso lettore potrà notarli da sé, in un corto circuito ben più attivo di una critica esibitoria ed elencatoria". È sintomatica perciò la mancanza di un "tirare le fila", giacché sull'analisi del Tempo nella poesia di Giudici si chiude, provvisoriamente e senza soluzioni, Gli ultimi poeti: il tentativo di ricongiungere Primo amore a Zanzotto in virtù di una "parola insieme normale e pronta a deviare verso la lingua strana e il silenzio" suona insoddisfacente. All'osservazione alternata dei testi si giustappone un'ambiguità di fondo nel lasciare al lettore qualsiasi interpretazione conclusiva, in un "cortocircuito" che rivendica le ragioni dell'estetica e condanna le convergenti perversioni del più alto strutturalismo e dell'infimo name-dropping. Forse proprio nella nozione forte e "classica" (cioè, appartenente alla poesia modernista più che a quella postmodernista) dell'estetica risiede il genoma comune tra Giudici e Zanzotto. Lo ribadisce in un saggio affine per contenuti (Qualcosa che c'è, "L'immaginazione", aprile 2012) Andrea Cortellessa, che ha trovato il tratto condiviso nell'aspirazione mai pacificata al "sublime" e al "grande stile", rifratto dall'acqua vitale di una dizione ironica (dimessa e artificiosamente colloquiale in Giudici, onnivora e ipermanierista in Zanzotto, distinguendo con l'accetta). Ferroni si muove nella stessa direzione nel capitolo 3 (Cercare il sublime), affronta il problema della lingua per esprimere l'Introvabile nel 5 (Lingua/lingue) e infine, ricongiungendosi alla spinta "finale" di Dopo la fine, tratta del rapporto dei due poeti con il tempo e la morte, con il passato ricostruito dalla memoria. Solo leggendo quest'ultimo capitolo, scompare il rischio di prendere il titolo come un sinonimo di "Après moi, le déluge!". Giudici e Zanzotto "sono stati gli ultimi a vivere nella poesia un rapporto integrale col mondo, entro una coscienza culturale e critica di ampio respiro, come scommessa essenziale che chiama in causa tutto il senso dell'essere contemporaneo". Con loro sparisce un'idea di poesia che contraddistingueva molti dei poeti italiani fra il 1890 e il 1935 circa, anzitutto Montale (cui si rifà all'inizio Giudici), Saba e Ungaretti (che è il referente primario di Zanzotto). Altre idee nasceranno: Ferroni sa che la letteratura non ha fine se non con la vita. Gli ultimi poeti non è apocalittico tanto perché predice un'imminente catastrofe culturale, quanto perché, in senso etimologico, svela due esistenze che hanno attraversato il Novecento, due opere che l'hanno reso più degno di essere pensato.   Lorenzo Marchese  

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Conosci l'autore

Giulio Ferroni

(Roma 1943) critico e saggista italiano. Professore all’università di Roma, si è dedicato in particolare al teatro del Cinquecento («Mutazione» e «riscontro» nel teatro di Machiavelli, 1972; Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, 1977; Il testo e la scena, 1980), prima di intraprendere la stesura della Storia della letteratura italiana (1991). Nel 1996 ha pubblicato il saggio Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, mentre alla sua vena di corrosivo osservatore dell’attualità culturale si devono le Lettere a Belfagor (1994), uscite sotto lo pseudonimo di Gianmatteo Del Brica. Altri saggi: La scuola sospesa (1997), Passioni del Novecento (1999), I confini della critica (2005), Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero (2010).

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