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La prosa tagliente e caustica della Didion a volte prevale sui temi proposti, un saggio letterario, un affresco americano in cui si passa da dighe a società di controllo del traffico veicolare su strada, dalla Lessing al mondo del cinema, un saltare di palo in frasca in cui il filo conduttore è appunto lei, la forte personalità della scrittrice. Pensare che c’è chi ha trovato kitsch il suo modo di scrivere, sarà un caso ma la Szymborska amava il kitsch. Con buona pace dei nasi arricciati.
Recensioni
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Ascoltare “The Didion Album”
Nel saggio The White Album, quello che apre la raccolta omonima di scritti di Joan Didion, dopo alcune pagine di storie eterogenee, l’autrice racconta di un certo Huey P. Newton, un “militante nero di venticinque anni” accusato di omicidio. È il 1968, siamo nella prigione della Contea di Alameda e Joan Didion è andata a fare visita a Huey P. Newton insieme ad altri due giornalisti perché il “martire politico” è in attesa di essere processato e sui giornali si parla di lui. Il tema è bollente e risale al 1966, l’anno della fondazione; il tema è il Black Panther Party, le Pantere Nere.
Dopo che i giornalisti siedono e l’avvocato accende il registratore, Huey P. Newton entra nella stanza, sorride e, a quel punto, la sua storia potrebbe cominciare. Potrebbe cominciare perché cominciano le domande ma in realtà non comincia perché a quelle domande Huey P. Newton non risponde con la sua storia bensì con quella generale, quella a-personale e retorica:
Continuavo a desiderare che parlasse di sé, a sperare di aprire una breccia nel muro della retorica; ma lui sembrava uno di quegli autodidatti per i quali tutte le cose particolari e personali si presentano come campi minati da evitare anche a spese della coerenza, e per i quali la salvezza risiede nella generalizzazione.
Neanche quattro pagine più tardi Joan Didion ci riporta la lista che, negli anni più vivaci della sua attività di reporter – quelli che coincidono con la stesura dei testi della raccolta – tra i Sessanta e i Settanta, teneva “fissata con il nastro adesivo all’interno dell’armadio a Hollywood”, dove la scrittrice aveva casa. È una lista di cose da mettere in valigia e non ha niente a che vedere con il giornalismo e tutto con la persona. Sono gli oggetti intimi di una donna che viaggiava e scriveva, che viaggiava per scrivere, che raccontava delle storie per vivere e che si sforzava di vivere la sua vita come fosse stata una sceneggiatura. Precisa, sotto controllo, una trama già conosciuta e appesa al muro.
Con una piccola assenza, tuttavia. L’orologio.
L’elemento che manca dalla lista e che, mancando, ci racconta di quella scrittrice più di quanto facciano tutte le cose che invece sono in presenza; quello che fa di una sceneggiatura già scritta una storia interessante; quello che sostiene una raccolta di saggi e reportage che altrimenti non sapremmo perché leggere.
Avrei dovuto avere una sceneggiatura, e io l’avevo smarrita. Avrei dovuto sentire le chiamate e non le sentivo più. Avrei dovuto sapere la trama, invece sapevo solo quel che vedevo: una serie di inquadrature in sequenza variabile, immagini senza alcun “significato” al di là della loro disposizione temporanea, non un film ma un’esperienza da sala montaggio.
Questo è The White Album.
Questo è The White Album, ancora. Non (solo) un montaggio, ma un album che mette su Joan Didion e che suona soltanto due canzoni: una si chiama donna, l’altra California. La voce che canta è la sua, ovviamente femminile e ovviamente californiana. La voce che canta è personale tanto quanto ci si aspetta da chi, per raccontare quel che c’è fuori, racconta di sé e di sé permea ogni dettaglio. Non a tutti piace ascoltare un altro dire “io” e pochi sono disposti a pensare che l’esperienza di un altro possa essere in qualche modo utile alla propria. Non credo di sapere perché visto che a me come a Joan Didion piacciono le brecce, piace vedere la propria vita “ampliata in un romanzo”, piace scrivere storie che sono le mie e che un attimo dopo possono diventare quelle di qualcun altro. Piace, più di tutto, conoscere quello che sta fuori nella misura in cui ha rappresentato qualcosa per qualcuno, avere il privilegio di vedere il mondo prendere forma perché qualcuno lo sta costruendo, lì sulla pagina, attraverso i propri occhi e per me.
Joan Didion sognava di lavorare con l’acqua, è attratta dalle dighe e da come l’acqua arriva in California. Joan Didion soffre di emicrania. Joan Didion vive a Hollywood, a Malibu, a Honolulu. Conosce le orchidee, le spiagge, i party e i bagnini. Joan Didion ha una figlia e conosce anche Jim Morrison, ha una figlia e con lei va a vedere i quadri di Georgia O’Keeffe a Chicago. Joan Didion è una donna il cui referto psichiatrico è così complesso e a volte raccapricciante che non so se voglio leggere quello che lei pensa del Movimento delle donne. Joan Didion sembra non voler far parte del Movimento delle donne ma scrive su di esso esattamente la riflessione che vorrei sentire oggi in tv, pronunciata da qualche nostro ministro o da una ragazza in un talk show; una riflessione che omaggia e onora la nostra diversità – la diversità delle donne dagli uomini – e la sua imprescindibile verità. Anche questa ha a che fare con l’acqua (“il senso di vivere la propria vita sott’acqua”), con la tragedia (com’era stato per Maria di Prendila così) e con lo scrivere di sé: si lascia fuori chi non ha mai provato qualcosa di simile e si parla, invece, a chi riconosce quel debito di sangue, vita e morte che segna ogni vita femminile.
Joan Didion ha una lista di cose da mettere in valigia da cui ne manca una, un libro che suona come un disco di sole due canzoni, una voce che è tutta la sua persona e un io che non valida autorizzazioni né rivendicazioni al di fuori della vita stessa. Joan Didion è il più onesto esempio di donna a cui mi va di pensare ultimamente. Joan Didion si automanifesta e, così facendo, legittima anche me.
Come scrittrice, i suoi finali sono diamanti, piacerebbe a tutti farne di simili. Anche grezzi.
Recensione di Marta Ciccolari Micaldi
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