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recensioni di Bonanate, L. L'Indice del 2000, n. 02
(recensione pubblicata per l'edizione del 1999)
Mary Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell'età globale, ed. orig. 1999, trad. dall'inglese di Gianluigi Foglia, pp. 185, Lit 27.000, Carocci, Roma 1999
Quasi un instant book, per la tempestività con cui nel corso dello stesso anno in cui si svolgeva la guerra del Kosovo la sua autrice ha saputo offrire informazioni preziose sul suo andamento, il libro di Mary Kaldor è anche un libro molto serio da affrontare con l'attenzione di chi si trovi di fronte a un progetto ambizioso: muovendo descrittivamente dall'attualità, offrire spunti di riflessione teorica sulla natura della guerra nell'età contemporanea, ovvero quella successiva alla fine della grande contrapposizione fra i mondi. In questo breve libro Mary Kaldor riesce in un'impresa che non viene sempre premiata dal successo, essendo facile che si verifichi uno sbilanciamento tra l'insistenza sull'attualità e l'eccesso di teorizzazione.
Alternando capitoli informativi e altri riflessivi, l'autrice ricollega, fin dalla limpida introduzione, le guerre del dopo guerra fredda alla fase della globalizzazione galoppante che stiamo conoscendo, e ipotizza che la natura delle guerre del nostro tempo dipenda dal nuovo tipo di violenza organizzata che le contraddistingue, fino al punto da fare di esse un'entità inconfrontabile con quelle del passato. Avendo presente essenzialmente la guerra di Bosnia (della quale ha vissuto in prima persona le vicende), ma anche gli altri conflitti non tradizionali occorsi negli ultimi anni (dalla Somalia alla Cecenia, dal Congo al Sudan, ecc.), e con un epilogo dedicato al Kosovo, Kaldor ipotizza che una sorta di grande destabilizzazione del ruolo della guerra nella società sia in atto squassando tutte le nostre consolidate conoscenze, a partire da quella relativa alla funzione territoriale delle guerre. Dopo essere stata fatta, per secoli (come mostra nel primo capitolo), per realizzare le grandi unità statuali che conosciamo, la guerra (giunta sull'orlo della catastrofe nucleare) si è, per così dire, ritratta dall'abisso, ma così facendo si è trovata sull'orlo di un altro abisso, rappresentato dal declino del ruolo regolatore dello Stato, titolare storico e anche giuridico del potere di guerra, che è stato ora raccolto invece da entità informali, che si nutrono della globalizzazione, che a sua volta perfora in modo clamoroso i confini e le unità statuali, producendo un tipo di guerra - "nuovo", appunto, secondo Mary Kaldor - che non corrisponde ad alcuno dei canoni classici che le riconoscevamo, a partire dal modello clausewitziano a cui eravamo abituati.
L'autrice conforta la sua ipotesi sulla novità delle guerre attuali (che nel vocabolario del passato avremmo definito "guerre civili internazionalizzate") con riferimento tanto all'originalità dei loro scopi, quanto ai metodi di combattimento, quanto alle tecniche di finanziamento. Per il primo aspetto basta fare riferimento alla componente etnica che esse esibiscono, manifestata nei trasferimenti forzati di popolazioni, oltre che nella pulizia etnica e nella violenza indiscriminata. Il secondo aspetto è illustrato dal ricorso a tecniche simili a quelle della guerriglia
e della contro-guerriglia (insurrezione e contro-insurrezione erano state negli anni sessanta
le parole d'ordine della teoria delle guerre locali "a bassa intensità", come dicevano gli strateghi del tempo), rispetto a cui però non si individuano più quegli scopi ideali (mobilitazione della popolazione, sostegno morale ai combattenti per la libertà, vera o presunta che fosse, romantica come nel caso del "Che" o eroica come in quello dei vietcong) che avevano tanto favorito il mito internazionale di quelle guerre: qui, ora, ci sono soltanto più nemici, non c'è alcuno da convincere, c'è soltanto da evincere, espellere, brutalizzare. E, quel che è più importante, gli attori di queste "nuove" guerre non sono più eserciti nazionali e razionali, guidati da strateghi e da fini di guerra prefissati, ma sono truppe raccogliticce, fatte di sbandati e delinquenti invece che professionisti, organizzate e pagate da potentati mafiosi invece che dalle casse dello Stato, addestrati da "tigri" come il famigerato Arkan o mobilitati da criminali di guerra, come quelli incriminati (e ogni tanto arrestati) per conto del Tribunale dell'Aja, o dal Milosevic di turno.
Il punto chiave dell'argomentazione di Mary Kaldor mi pare costituito dall'analisi che ella svolge sull'"economia di guerra globalizzata" (è il titolo del capitolo quarto), che è l'esatto opposto di quel che l'economia era nelle grandi guerre del passato, ovvero lo strumento centrale dello sforzo bellico nazionale: le nuove guerre, invece che dallo Stato nazionale (che nella condizione di guerra riusciva addirittura a realizzare forme di compattamento sociale o di solidarietà nazionale), partono dalla sua dissoluzione, producono frammentazione e devastazione, non si svolgono tra eserciti, ma tra bande e civili, o meglio: contro civili, inermi, disorganizzati e impauriti (è ovvio che in tali condizioni qualsiasi forma di aggregazione popolare volta alla formazione di un "esercito di liberazione", per usare ancora una volta una formula del vecchio linguaggio, è non soltanto impossibile, ma addirittura inimmaginabile). Il finanziamento delle attività militari è un qualche cosa che sta tra l'arcaismo delle razzie che compivano le truppe durante la Guerra dei trent'anni e la postmodernità del finanziamento realizzato con il traffico di droga, il contrabbando di armi, la vendita di corpi umani sia al dettaglio (prostituzione) sia all'ingrosso (gli sbarchi di clandestini), la prefigurazione di nuove grandi vie per gli oleodotti, e così via - in una logica nella quale autorità statali e autorità criminali si trovano oggettivamente (e talvolta anche soggettivamente) a colludere. Nell'era della delocalizzazione, alla ricerca di forza lavoro più economica, si delocalizzano anche le guerre, le popolazioni, i centri del potere finanziario, le sedi del potere politico.
Resta da dire quale sia la proposta alternativa che l'autrice espone come novità da contrapporre a quella delle guerre. Si tratta dell'approccio cosmopolitico al quale Kaldor affida il compito non di riprendere ancora una volta il grandioso ma astratto modello kantiano, ma - pur ispirandovisi - di promuovere un movimento che riconduca la violenza che si è privatizzata al monopolio pubblico: non più quello dello Stato, tuttavia, ma della società civile internazionale, la quale deve per un verso accettare il superamento del mito della sovranità (tanto più se sacralizzata) e per l'altro sforzarsi di dare vita a un sistema giuridico umanitario fondato sul rispetto e sull'imposizione (per così dire) dei diritti umani, comunque e dovunque: "l'applicazione del diritto cosmopolitico comporta qualcosa a metà strada tra un'azione militare e un'azione di polizia". È doveroso aggiungere che la proposta è argomentata con coraggio e buoni consigli, tutti diretti a favorire quanto meno un programma di democratizzazione internazionale.
Non possiamo chiedere a Kaldor di saperci dire se ci riusciremo e quali siano i metodi possibili per riuscirci; ma nondimeno il suo contributo a discuterne è senza dubbio di grande valore morale.
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