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Mi piacerebbe, data la meticolosità di particolari di cui è corredata l'opera, poter scrivere che si tratta di un lavoro monumentale, ma non è così. In genere, si dice, che il valore di un libro si riveli con il tempo, in base al suo lascito spirituale , a ciò che riesce a spostare nel lettore, al livello di prospettiva, e questo, a distanza di anni, non mi ha lasciato proprio nulla, a parte un senso di delusione per la promessa di originalità annunciata dal titolo che viene, a mio giudizio, sistematicamente disattesa da un procedere argomentativo presagibile, eccessivamente nozionistico e tabellario, che rasenta la pedanteria. Il libro è sostanzialmente un tentativo di raccontare la storia del nostro paese, non solo attraverso i cambiamenti che hanno investito le abitudini di consumo culturale degli italiani, ma anche passando dalla trattazione di vicissitudini squisitamente nostrane di carattere socio-politico : dalla mancanza di intellettuali a tutto tondo, all'anomala commistione tra sistema politico e quello televisivo, responsabile quest'ultima, dei vari oligopoli mediatici che si sono succeduti nel tempo, rendendo la nostra televisione un caso atipico unico al mondo, ovvero: un industria culturale a sé. Il quadro che ne viene fuori non è, dunque, dei più confortanti. Le tesi esposte nell'opera, sono tutte ampiamente condivisibili, ma, in fin dei conti, a parte qualche accenno di imprevedibilità , come l'inaspettato e gradito riferimento all'incommensurabile analisi pasoliniana indirizzata allo slogan pubblicitario dei «jeans Jesus» e gli apprezzabili contributi di autori dello spessore dei francofortesi, nella parte relativa alla requisitoria sull'industria culturale; la fruizione, che nel complesso avanza all'insegna della prevedibilità, non riesce mai a coglierti di sorpresa, anzi, la sensazione che se ne ricava, alla fine, è come di qualcosa di già letto, di risaputo, di cui forse, dopotutto, non se ne sentiva la necessità.
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