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L'autore ha dedicato in passato numerosi studi al tema che ora affronta in un volume organico nel quale rifluiscono ricerche svolte da molti anni. Se la cultura di tradizione marxista ha spesso ridotto il fascismo a "variante" del capitalismo ciò è forse avvenuto per il timore non dichiarato di riconoscere al fascismo stesso una sua "dignità" originale; e, d'altro canto, il rifiuto di riconoscere da parte della tradizione liberale e azionista l'esistenza stessa di una cultura fascista ha analogamente provocato un ridimensionamento del fascismo a pura empiria "muscolare". La "terza via" fascista tendeva a dare una risposta alla drammatica necessità reale di intervenire nella crisi tra le due guerre e, particolarmente dopo il crollo del 1929, nei vecchi equilibri tradizionali delle economie di mercato basati sulla mano libera e invisibile della virtuosa autoregolamentazione, cercando al contempo una soluzione che costituisse una sfida nei confronti dell'ipotesi collettivistica posta in essere nell'Urss. L'antipolitica fascista proponeva cioè una radicale sostituzione della rappresentanza tradizionale (suffragio universale, diritti dell'individuo, parlamento) con una nuova rappresentanza del mondo produttivo, delle categorie, dei ceti e delle professioni. E dunque la soluzione fascista era in rebus ipsis tanto anticomunista quanto antidemocratica.
Il fenomeno "corporativismo" si presentò tuttavia nel periodo fascista come uno dei più dibattuti e fortunati esempi di elaborazione dottrinale e di propaganda internazionale. Meno evidenti, e in definitiva poco consistenti, furono al contrario le cosiddette realizzazioni corporative, che fornirono alla dittatura ben centrata sull'asse stato-partito l'estetica appariscente dello stato sindacale-corporativo, inteso come stato essenzialmente e radicalmente "nuovo". Quella novità era in buona parte una velleitaria pretesa, ma l'autore dimostra efficacemente che non era però solo un bluff e che, nonostante contorsioni e sussulti, il corporativismo fu, anche nella realtà, la componente più originale della ricerca fascista di una "terza via", altra sia dal liberalismo che dal socialismo, sia dall'Occidente capitalista e "plutocratico" sia dall'Oriente sovietizzato.
In particolare, tra le due guerre mondiali, ma in modo significativo in tutta la prima metà del XX secolo, la lotta incessante di tre miti (il liberista, il collettivista e il corporativo) segnò l'intera epoca storica della contemporaneità. Dato che molte altre componenti ideologiche fasciste erano definibili solo per contrapposizione negativa, il corporativismo finiva per risultare un'affermazione positiva di valori e di indicazioni operative di "fuoriuscita" dalla crisi generale che Mussolini affermava essere "del" sistema e non interna "al" sistema. L'Italia fascista, che senza dubbio fu meno radicale e avanzata nelle sue pulsioni e tendenze totalitarie rispetto alle esperienze sia nazista sia sovietica, ebbe con il corporativismo un altrettanto indubbio primato ideologico, potendo presentare al fascismo internazionale un suo mito più radicale, attraente e "moderno" di quanto non fossero lo stesso razzismo nazista o, nell'altro campo, la prospettiva leninista della dissoluzione dello stato e della società divisa in classi.
Diverso dai meri marchingegni conciliativi e paternalistici della dottrina sociale della chiesa e dell'interclassismo corporativo di matrice cattolica, il corporativismo fascista rispose a suo modo alle nuove esigenze produttivistiche di relazioni industriali non necessariamente e aspramente conflittuali fra capitale e lavoro, e fornì una cornice dottrinale, a suo modo "elevata", alla prassi fascista di disciplinamento e anche di peculiare "socialità" autoritaria. Fra tanto parlare di "occasioni mancate", quella colta tramite il corporativismo dalla borghesia italiana durante il ventennio fu piuttosto un'occasione realizzata (salvo il suo catastrofico esito finale) di ottenere la pace sociale all'interno del paese e di proiettarlo all'esterno nelle avventure imperialistiche, dando compimento a una non improvvisata volontà di conseguire lo status di grande potenza.
Nel volume si passano in rassegna le principali vicende sia politico-legislative sia culturali della parabola corporativa, e sono particolarmente apprezzabili una serie di ritratti equilibrati e acuti dei maggiori e minori protagonisti con la singolare assenza o laconicità di Mussolini dei dibattiti e delle polemiche corporativiste (Giuseppe Bottai e Alfredo Rocco, Ugo Spirito, Massimo Fovel, Nello Quilici, Giulio Colamarino), con l'adeguata registrazione delle reazioni degli economisti classici o della polemica Croce-Einaudi su liberalismo/liberismo. Per lo spessore delle ricerche, per la qualità dell'attenta esegesi delle fonti, per la sicura sintesi interpretativa delle valutazioni e dei giudizi, questo libro merita una segnalazione fra i più importanti della bibliografia sul tema.
Marco Palla
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