Ogni volta che sulla scena politica o quotidiana si affacciano questioni che coinvolgono a vario titolo le donne, puntualmente viene richiamata l'assenza delle femministe storiche come responsabilità negativa. Perché non si esprimono a proposito delle veline nelle liste elettorali? Per quale motivo non intervengono per difendere i potenziali attacchi alle legge 194? Com'è possibile che non si levino voci contro gli ostacoli ai provvedimenti per contrastare l'omofobia o il femminicidio? Domande legittime, ma che rispondono a uno stereotipo che vuole il pensiero femminista sempre pronto a fornire ricette e riflessioni valide in ogni tempo e stagione. Niente di più sbagliato. A spiegarlo è proprio l'autrice, che ripercorre la genesi, lo sviluppo e i caratteri distintivi del movimento femminista a partire dalla complessità e dalle contraddizioni di un arcipelago dalle molteplici diramazioni. Ma soprattutto da un incipit non scontato: la volontà delle femministe di entrare nella storia loro malgrado. Lungi dall'attribuirsi un ruolo secondario, le attrici di quel protagonismo che ha caratterizzato quasi un ventennio della storia repubblicana hanno preferito lasciare tracce attraverso memorie o pensieri spesso non scritti, o perlomeno difficilmente decifrabili e comunque non manovrabili. Per questo il lavoro di andare a recuperare quei segni e quei fili così contorti, ma nello stesso tempo capaci di far seguire traiettorie precise, è ancora più prezioso e importante. Per quanto la storia delle donne e i Women's Studies siano ormai un terreno ampiamente dissodato, anche se spesso viziato dalla stessa ghettizzazione delle mai raggiunte "pari opportunità", mancava uno studio strutturato non tanto e solo sul femminismo, ma su come questo movimento abbia saputo interagire con la storia sociale, politica e del costume del paese. Come spesso succede per la cosiddetta "stagione dei movimenti", raccontata solo attraverso le testimonianze di coloro che l'hanno vissuta, con il risultato di facili e fuorvianti apologie (i "formidabili anni" del Sessantotto, solo per fare un esempio), anche il femminismo è stato per troppo tempo lasciato ai ricordi o alle rievocazioni del "vissuto" in una sorta di autorappresentazione necessaria a recuperare il patrimonio teorico e biografico, ma insufficiente a capire nessi e nodi problematici della storia d'Italia. Fondamentale è stato il lavoro di recupero delle carte e dei materiali depositati nei vari archivi oggi disponibili per gli studiosi e gli studenti, ma a condizione che la memoria vada messa a confronto con fatti, voci diverse, altri saperi e poteri. Solo in questo fecondo "dialogo" fra storia e memorie si può inquadrare il movimento femminista nel giusto alveo, ovvero di un soggetto attivo nel provocare un cambiamento che, proprio dalle istanze delle donne, trova la linfa vitale per conquiste diventate indiscutibili nel tempo. Giustificata la periodizzazione scelta dall'autrice, anche se lascia interrogativi aperti su una fase successiva così problematica come quella del "riflusso". Dal 1965, in cui è datato il primo Collettivo milanese, al 1980, segnato dalla decisione di cambiare strategia, si compie la genesi e la parabola di un movimento che si misura sul pubblico e sul privato delle donne. L'essere "contro" una società sorda al protagonismo femminile, così come le battaglie civili che hanno avuto nel divorzio e nell'aborto solo i megafoni più forti, ma non certo unici, hanno fatto del movimento femminista "la coscienza critica" di un paese ancora attraversato da forti resistenze alla modernizzazione. Tre sono le fasi che vengono analizzate per far capire come si sia in presenza di una storia non lineare, ma costruita su tasselli che faticosamente vanno a comporre il mosaico dell'emancipazionismo riguardo ai diritti prima ancora che ai soggetti coinvolti. Nel primo periodo, all'indomani del miracolo economico, si studiano i meccanismi dell'agire politico che dall'autocoscienza sfocia poi nei manifesti programmatici; di seguito arriva il momento cruciale di confronto/scontro con il movimento studentesco e con le tradizionali organizzazioni femminili per una contrapposizione mai sanata; infine si registra la volontà di misurarsi politicamente con i partiti e le istituzioni, alla ricerca di una legittimazione indispensabile per ottenere risultati concreti a livello legislativo e sociale. Sono scansioni non meramente cronologiche, ma messe in relazione con una società pervasa da fermenti e spinte centrifughe che, se da una parte spingevano alla trasformazione, dall'altra rinsaldavano gli istinti di conservazione ben rappresentati da apparati, ceti e forze politiche impegnate a mantenere lo status quo. In questo contesto, il movimento femminista contribuisce in maniera determinante a offrire una visione del mondo alternativa, volta a radicali conquiste di civiltà. A partire dalle donne e per le donne, ma destinate a influire positivamente sull'intera società. Non si tratta solo di rivendicare sacrosanti diritti di parità e uguaglianza, ma di far capire come fosse necessario rinunciare alle "leggi protettive", formulate per tutelare una "specie" che comunque doveva rispettare il classico ruolo di madre e lavoratrice (anche se il welfare deve essere effettivo e non richiesto). Di quei provvedimenti che avevano come obiettivo solo "di permettere agli uomini di far carriera, e alle donne di restare segretarie per tutta la vita", il movimento non sa che farsene. Meglio il diritto alla "differenza", come pilastro di un'identità che non vuole concessioni filantropiche o assistenziali. Pur rivelandosi un duro prezzo da pagare per gli anni a venire, la distinzione filosofica diventa però il passe-partout per aprire la strada della partecipazione. Le esperienze dei gruppi, anche di quelli del femminismo sindacale, le formazioni dei collettivi anche al Sud, l'asse Roma-Milano, i corsi delle 150 ore, ricostruiti fedelmente e con vivacità nella ricerca, sono in grado di dimostrare quanto il movimento abbia saputo "graffiare la storia". È in questi rivoli di protagonismo che si rintraccia la capacità di aver contribuito a muovere le onde della storia, con la stessa intensità delle battaglie più note a favore del divorzio e dell'aborto. Resta da capire se il femminismo che ha saputo cambiare l'Italia negli anni settanta abbia lasciato un'eredità in grado di avere altrettanta forza d'urto nella realtà contemporanea. La trasformazione del femminismo in "scienza", suggerita dall'autrice, attraverso il consolidamento dei Cultural Studies, costituisce senza dubbio un traguardo importante, ma con il rischio di occupare una nicchia destinata a non incidere profondamente nelle dinamiche della società. La sfida è aperta, con l'auspicio che le azioni e le memorie di quel movimento femminista non rimangano solo storie pur fondamentali da consegnare alla storia, ma un modello dal quale ripartire per scardinare pregiudizi e discriminazioni. Anna Tonelli
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