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Quando Pascal morì, nel 1662, i Pensieri (così si sarebbero semplicemente intitolati, a partire da fine Settecento, i materiali dell'incompiuta "Apologia della religione cristiana") esistevano manoscritti, per lo più nella forma fragile di foglietti ritagliati e riuniti in mobili filze; delle Provinciali, le lettere scritte sotto pseudonimo fra il 1656 e il 1657 nell'infuriare della controversia giansenista, esisteva una disseminazione di tirature effimere, incontrollabili, e alcune edizioni su cui l'autore forse non ha gettato lo sguardo. Aveva ragione Pierre Nicole, l'amico giansenista, a rammaricarsi che del più grande genio del secolo tormentato dal demone dell'incompiuto potessero quasi sparire le tracce.
Aveva ragione, ma sappiamo quanto i fatti gli abbiano dato torto: le Provinciali si sono imposte come capolavoro della prosa classica francese, anche nei periodi in cui i Pensieri conoscevano una ben più contrastata fortuna, per esempio nel corso del Settecento. E oggi, dopo un XX secolo in cui i Pensieri hanno polarizzato l'attenzione, tra filosofia e filologia,per la loro consonanza con il "tragico" novecentesco e per l'affascinante rompicapo della loro edizione, le Provinciali si ripropongono come l'opera pascaliana più limpida e più inquietante. Per quanto interrotte dopo la diciottesima lettera, sono il più compiuto dei testi di Pascal, il più lavorato e "finito" secondo i canoni dell'estetica classica; ma per la speciale natura della loro diffusione, tra pubblicità e clandestinità, pongono dal punto di vista filologico così dicono i massimi specialisti di Pascal, a cominciare da Jean Mesnard problemi di edizione ancora più grandi di quelli dei Pensieri. E quanto al loro messaggio, alla collaborazione di Pascal con gli amici di Port-Royal nella preparazione dei materiali per le "petites lettres", alla "causa" teologica e morale e ai metodi con cui è stata difesa, la controversia non è ancora spenta; come se il passare del tempo aggiungesse nuovi "renversements du pour au contre", nuove ragioni dialettiche per chi ama e per chi critica quest'opera straordinaria.
Della complessità del problema filologico e della posta in gioco dal punto di vista morale il lettore italiano poteva avere finora un'idea approssimativa, nonostante le numerose edizioni italiane dal XVII secolo alla fine del Novecento. È un limite degli studi italiani su Pascal un certo distacco, appunto, tra filosofia e filologia, un correre delle idee più veloce che non il travaglio paziente imposto dal testo. Diciamo subito che, proprio sul piano filologico, Carlo Carena, già traduttore e editore delle Pensées, fa compiere ai nostri studi pascaliani un decisivo balzo in avanti, precedendo forse la stessa filologia francese nel rigore della posizione di certi problemi. E qui, in questo secondo elegante volume pascaliano della "Pléiade" italiana, che già aveva accolto i Pensieri, il traduttore filologo offre anche un testo introduttivo di ampia portata: affronta insomma quella ricostruzione storica, quell'impegno interpretativo che aveva, si direbbe, quasi evitato negli apparati della sua traduzione delle Pensées.
Le "petites lettres" operarono al loro tempo uno strano miracolo. Problematiche sottili, che erano state fino allora territorio riservato ai dottori o ai pedanti, appassionarono la gente comune, quella fetta di società capace di riflessione e formata alla conversazione che si chiamava allora "les honnêtes gens". Il passaggio retorico attraverso la trasparenza di uno stile colloquiale, intriso di ironia, fu la prima ragione del loro successo. Nasceva un nuovo modo di argomentare, perorare e persuadere: fu l'invenzione di quella misteriosa leggerezza dell'"esprit" francese senza la quale non esisterebbe la letteratura di idee del Settecento. Ma fu anche l'universalizzazione di una problematica teologica ed etica; fu appello al senso comune; fu risveglio delle coscienze. La leggerezza e la gravità si conciliavano; i toni di commedia e la passione profetica si alternavano. D'altra parte, nell'uso dell'ironia, e nel fuoco ispirato da quel demone polemico in cui Romano Guardini vedeva la tentazione di Pascal, si rivelava l'ambiguo potere della letteratura rispetto a temi teologici ed etici, questioni di "altro ordine" (direbbe lo stesso Pascal).
Era importante che la traduzione italiana inquadrata da ricchi apparati restituisse appunto questo contrasto: la "medietas" dello stile, che assicura al lettore il piacere del testo, e la consapevolezza dell'entroterra dottrinale, dell'intrico intertestuale, che alimenta quel facile commercio di superficie. Carlo Carena, ci sia permesso di dire, traduce le Provinciali quasi ancor meglio dei Pensieri: la sua naturale eleganza addolcisce talora lo scabro non-finito dei frammenti dell'"Apologia"; essa conviene invece perfettamente al testo delle "petites lettres", che Pascal lavorò in tempi brevi, ma intensi, come si affila un'arma, come si sfaccetta un gioiello. E per quanto riguarda gli apparati, ci piace sottolineare un elemento di contrasto fra la breve prefazione di Salvatore Silvano Nigro e la lunga introduzione di Carena. L'italianista, attento agli echi che la polemica delle Provinciali ha avuto in Italia, fra critici e scrittori, fra Manzoni, Soldati, Tartaglia, liquida sbrigativamente il merito della questione; ha buon gioco nell'annerire il fantasma del gesuita dalla morale rilassata (il "casuiste") aggirando un più profondo nodo, la controversia sulla grazia fra gesuiti e giansenisti. Carlo Carena, da filologo abituato alla comparazione dei testi, che è scuola di oggettività, tiene in mano i due capi della catena: è la lezione di metodo propria di Montaigne, e dello stesso Pascal. Si interroga pensosamente sui vincitori e sui vinti di quello scontro, comunque troppo violento per mantenersi nelle linee di una ideale purezza. Si appella, con un respiro largo, al tribunale della storia. Rende l'onore delle armi a una Compagnia di Gesù che ha prodotto negli stessi anni, quando non addirittura nelle stesse persone, morale rilassata e eroismo, casisti aberranti e martiri.
Per finire, mettiamo per un momento queste Provinciali italiane accanto alle due edizioni attualmente più accreditate in Francia: quella a cura di Michel Le Guern, tra le Oeuvres complètes di Pascal nella collana della "Pléiade", e l'edizione Cognet-Ferreyrolles, ora nella "Pochothèque" (Le Livre de Poche - Classiques Garnier). Ognuna si rifà a un testo diverso fra le edizioni in vita di Pascal; nessuna delle tre risolve definitivamente questioni filologiche forse insolubili.
Rispetto all'una e all'altra, possiamo salutare con fierezza questa impresa compiuta da uno studioso italiano che giungendo all'opera di Pascal più per curiosità intellettuale che per specializzazione, attraverso lontani passaggi: la traduzione di san Paolo, quella di Agostino e il cammino a ritroso dalle Pensées alle Provinciales ha applicato al proprio oggetto una lente inappuntabile. Dopo tutto, non esiste di fronte a un'opera un problema di lontananza e di vicinanza. La questione, lo ha detto Pascal, è la scelta del punto di prospettiva da cui osservarla.
Benedetta Papasogli
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