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McInerney scrive bene, ho amato Le mille luci di New York e The Good Life, ma non sono riuscita ad appassionarmi a questo libro. Il Giappone rimane un concetto astratto, troppo legato all'immaginario, e la storia del protagonista finisce senza aver dato nessun senso alla sua narrazione. Un'occasione persa per uno scrittore che è molto più a suo agio nella realtà che conosce meglio.
Un americano in fuga. Nel grande Paese dello zen, dell'ordine mentale, della disciplina ferrea delle arti marziali. In un Giappone dipinto a tinte forti ma essenziali, decise ma minimali, va in scena una vicenda intima, personale, la ricerca di una catarsi spirituale. Ma, a conti fatti, il libro promette più di quanto mantenga.
Il libro di McInerney che mi è piaciuto meno. O forse, semplicemente non ho capito le sue intenzioni...
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Corona, M., L'Indice 1987, n. 7
Siamo a Kyoto, nell'aprile del 1977. Un giovane americano, Christopher Ransom, sta riprendendo i sensi, attorniato da un capannello di facce giapponesi che lo osservano. Un attimo di deconcentrazione, e la botta dell'avversario è piombata inesorabile, puntuale. Il karate, al pari della corrida, non permette alcuna "abdication of vigilance" Non si muore nel pomeriggio, almeno durante gli allenamenti, ma il rituale è quello, e giusto per un bisogno di disciplina, per definire la propria misura di se, Ransom si è messo a scuola nella miglior palestra dell'antica capitale dell'Impero.
Setting hemingwayano, dunque: "men without women" uomini "duri" (ovvero fragili come ormai sappiamo) ancora in cerca di sé oppure definitivamente deragliati; americani all'estero, questa volta in Giappone, l'elusivo paese custode di tradizioni spirituali millenarie al tempo stesso colonia culturale dell'America (si veda, nel romanzo, il patetico innamoramento di Kano e della sua band per il blues); antico avversario in guerra e nuovo, temibile rivale economico ("the yen was rising"); estrema frontiera occidentale, giù raggiunta da Lafcadio Hearn, Gary Snyder, Allen Ginsberg. Fortunato quest'ultimo, che sul rapido Kyoto Tokyo maturò un profondo "cambiamento" interiore, descritto nella poesia "The Change: Kyoto-Tokyo Express". A Ransom, approdato in Giappone "desperate to attach himself somewhere", ansioso di trovare "un luogo di austera disciplina che lo potesse purificare e cambiare", non andrà altrettanto bene. Alle sue spalle c'è l'ombra del Vietnam, la sconfitta, la vergogna nazionale. In una pagina retrospettiva fra le più intense del libro, Ransom, in fuga da rischiosi traffici di droga finiti in tragedia (la morte degli amici Ian e Annette in Pakistan) si imbarca su una vecchia carretta; mentre, stravolto e deluso da questa sua esperienza tardo-hippie, cerca di immaginare un luogo, un approdo finale che gli consenta di dire, con sollievo, "siamo arrivati" "this is the end", la nave scivola lungo le coste indocinesi di notte, fra "ipnotiche illuminazioni rosa tenero e oro". Non sono lampi n‚ fuochi d'artificio. Quegli "sprazzi gialli" segnano la caduta di Saigon. Riudiamo allora la voce incrinata e struggente di Jim Morrison in "Apocalypse Now": "this is the end', davvero, ma in chiave tragica.
Come nei racconti di Hemingway, come nel Kerouac di "Sulla strada", alle spalle della crisi individuale c'è un evento collettivo - una guerra - invisibile, lontano terremoto che scuote dalle fondamenta ogni convinzione, ogni sicurezza, e di cui si parla il meno possibile. In "Riscatto" compare un'ulteriore ragione di turbamento, assai frequente nella nuova narrativa americana: la disintegrazione della famiglia. Un padre donnaiolo, che svende il proprio talento alla televisione, un figlio offeso da questi comportamenti irresponsabili, una madre che muore di cancro. In tale contesto, il gioco onomastico con cui McInerney battezza il suo protagonista, legandolo a due emblematici personaggi jamesiani (il Christopher Newman di "L'Americano" e il Basil Ramson di "Le bostoniane", aggiunge ironia a ironia: che fine ha fatto il mito puritano della rigenerazione? dov'è mai "l'uomo nuovo"? Che cosa porta per il mondo questo "Cristoforo", se non la propria inettitudine e confusione? Nessun riscatto ("ransom" ) sarà concesso.
A differenza dell'amico Miles Ryder (un "easy rider" alla Dennis Hopper/Peter Fonda, gemello arenato del Japhy Ryder - alias Gary Snyder dei "Vagabondi del Dharma"), Ransom non accetterebbe mai di continuare a Kyoto la vecchia vita da sballone fuoruscito dall'itinerario obbligato Kabul-Katmandu-Goa, e tuttavia non riesce neppure a raggiungere l'agognato equilibrio; anzi, il modello giapponese di ascesi e purezza gli si sbriciola fra le mani. Andrà dunque incontro, in quello che vorrebbe essere un perfetto stile hemingwayano ("Addio alle armi"), a una morte insensata. Ma - qui sta il punto - la morte di Ransom, pur bagnata dalla medesima pioggia luttuosa che accoglieva il tenente Henry fuori dell'ospedale dove la sua donna si era spenta, non acquista una valenza simbolica paragonabile a quella di Catherine Barkley. È una morte insensata, sì, ma anche insignificante, di cui non ci importa nulla. Un tocco di paranoia alla Pynchon ("L'incanto del lotto 49") che McInerney ha voluto conferire alla sua storia nega a Ransom una statura tragica; incerto è, per di più, il punto di vista del narratore nei confronti del suo eroe, ma segretamente propenso, forse, a un compatimento partecipe. La spada da samurai che tronca l'esistenza di Ransom, brandita da un semplice fuori-di-testa come Frank De Vito, privo di qualsiasi plausibile motivazione e quindi "villain" inconsistente, non diventa arma fatale, sicché il romanzo si chiude in modo poco persuasivo e lascia nel lettore il sospetto che McInerney, non avendo impostato il racconto con sufficiente rigore, e oscillando tra l'ambizioso cimento del Bildungs-roman (o "quest novel"), la tentazione del "giallo " e la ricaduta nel diario snobistico di cose viste, quale era in buona misura, e con innegabile garbo, "Le mille luci di New York" (1984) lo chiuda nel modo più facile, facendo morire il suo irrisolto, gracile protagonista, copia sbiadita e inautentica dei modelli hemingwayani.
Del resto, anche dal punto di vista stilistico il romanzo convince fino a un certo punto. Il senso di déjà vu è ricorrente. Come già in "Le mille luci", la preoccupazione per la scrittura prevale sull'oggetto, e ci ricorda l'Hemingway più manieristico ("Al di là del fiume e tra gli alberi"). Il segno hemingwayano (tono cool, frasi brevi, emozioni controllate) resta dominante, ma privo di novità. È riconoscibile anche la mediazione di Raymond Carver, che McInerney ha avuto come maestro di "creative writing". Ma di Carver il giovane allievo non ha potuto assorbire le qualità precipue: quella sua forza dirompente, quella sua inesorabile, magistrale tensione. Certe cose, si sa, nemmeno i corsi di "creative writing" riescono a insegnarle.
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