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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1990, n. 3
Dato il meritato successo del suo romanzo d'esordio "Gli asiatici" (1935, Adelphi 1987) - un successo che può ricordare in tono minore, quello che il giovane Byron si guadagnò con i suoi racconti orientali - il compianto Frederic Prokosch aveva tutte le carte in regola per riuscire in un'impresa che negli ultimi centocinquant'anni deve aver tentato un'infinità di scrittori: la stesura d'una 'autobiografia' di Byron. L'impresa è tanto più allettante perché Byron stesso compose delle 'memorie' così disinibite che alla sua morte gli amici più fidati le diedero alle fiamme, con gran costernazione di Thomas Moore, primo biografo del poeta (l'episodio era certamente presente a Henry James mentre scriveva "Il carteggio Aspern*).
La miglior descrizione del "Manoscritto di Missolungi" la offre Prokosch stesso quando, in quel delizioso volume di memorie che è "Voci" (1983, Adelphi 1985), egli afferma di essersi sforzato "di non cadere nel mimetismo tenendo il libro nel registro di un'ambigua aberrazione nella tonalità di un azzurro screziato di argento antico che si sostituiva al rosso e all'oro propri del carattere di Lord Byron". Eppure, se non di quella di Byron, si tratta qui di una voce così simile da suonare poi irremediabilmente artificiale ("mi sentivo una sorta di suo postumo Doppelganger", confessa altrove Prokosch). L'irrisolta cornice (che consiste in un'introduzione dello pseudocuratore e in una breve corrispondenza fra i rinvenitori dei tre quaderni del 'manoscritto') è un tentativo di distanziamento francamente malriuscito: quando si tratta di biografie fittizie accorgimenti 'metanarrativi' più arditi come quelli del "Pappagallo di Flaubert" di Julian Barnes o del recente fantasmagorico romanzo sull'esilio di Ovidio "Il mondo estremo" di Christoph Ransmayr forse sono ormai indispensabili. Limitandosi a 'virare' i colori si rischia di soffocare le tinte vere solo per lo smalto di uno splendore diverso: insomma il romanzo è di veloce e piacevole lettura ma si sente troppo la mancanza del 'rosso 'e dell''oro'.
Pur riconoscendo anche nel "Manoscritto", a tratti l'ironia quasi sbadata che domina "Voci" l'incessante rivisitazione di luoghi e paradossi romantici - dalle riflessioni sull'onnicomprensività del mare ("Il mare è Amore. È anche il Non-tempo.È il Non-terrestre. È la morte") al pronunciamento che noi "mutiamo di continuo eppure non cambiamo mai" - ci conferma che la maestria con cui Byron tiene sotto controllo il 'luogo comune' con il 'luogo comune' è davvero una vittoria suprema, che nel Novecento forse solo Joyce ha conseguito con pari sicurezza. Le pagine migliori del romanzo sono semmai le più livide: la descrizione della cremazione del cadavere di Shelley, ad esempio, con quella gotica insistenza sul cuore che non si consuma e viene infine conteso fra l'infantile Leigh Hunt e l'altera Mary Shelley. E di innegabile forza è la conclusione del 'secondo taccuino', che si finge stilata il 24 marzo 1824, a meno di un mese da una morte prodotta soprattutto da quell'improbabile panacea che era il salasso: "Io sono come una calamita, una calamita riluttante. Attraggo verso la mia persona non soltanto donne, ma anche animali, fantasmi, zanzare e sanguisughe".
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