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Il cavaliere svedese
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Il cavaliere svedese - Leo Perutz - copertina
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cavaliere svedese

Descrizione


Leo Perutz è riconosciuto maestro di una specie particolare del fantastico: quella che si insinua nella realtà come una goccia di veleno, e la trasforma dall’interno in un’avventura demoniaca, senza che ci sia bisogno di ricorrere a troppo evidenti apparati di prodigi. Ma l’effetto è ancora più inquietante. Nel Cavaliere svedese, sullo sfondo fosco di un’ Europa di briganti, dragoni e locandieri all’inizio del Settecento, si racconta la storia di un ladro vagabondo che ruba l’identità a un giovane cavaliere svedese, diventando così egli stesso un potente che riesce ad attuare tutti i suoi sogni. Ma la potenza del «barone del malefizio» aleggia, palpabile e imprendibile, su questa vicenda. E il Diavolo sa riapparire sempre, per lo meno quando la partita giocata con lui si avvicina alla fine.

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Dettagli

3
1991
6 maggio 1991
228 p.
9788845908330

Valutazioni e recensioni

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And the Oscar goes to ….
Recensioni: 3/5

No dai. Tutti 'sti 5/5. 3/5 è gia un voto generoso

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pirtoloso
Recensioni: 5/5
Indimenticabile

Sicuramente il più bel libro letto quest'anno, indimenticabile!

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Enrico
Recensioni: 5/5

Il suo capolavoro, un intreccio di realismo storico ed elementi fantastici. La costruzione della struttura della narrazione è perfetta, come un puzzle, che rimanda alla sua professione di matematico.

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Recensioni

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Voce della critica


recensione di Terrile, C., L'Indice 1991, n.10

Dopo "Il marchese di Bolibar", (Adelphi, 1987) passato purtroppo in punta di piedi sul terreno dell'editoria nazionale, l'Adelphi offre una nuova, eccellente occasione per accostarsi ad un autore ancora oggi più tradotto che conosciuto. "È il mio libro migliore", assicurava Perutz, che negli anni venti aveva tenuto col fiato sospeso i lettori di mezza Europa, ma nel'36 il suo declino di scrittore ebreo era già fatalmente avviato e "Il cavaliere svedese" poté uscire soltanto in Austria, Ungheria e Cecoslovacchia. Qualche anno più tardi, da Tel Aviv, dove si era rifugiato subito dopo l''Anschluss', Perutz scriveva al suo editore rimproverandolo di aver trascurato il suo romanzo. In esso il lettore può trovare alcune fra le migliori pagine della narrativa perutziana, purché non vi cerchi quel Diavolo promesso da un risvolto di copertina che, come molti altri, dovrebbe recare l'ammonimento: "maneggiare con curai". Quando poi si tratta di un autore orfano di critica come Perutz, una rettifica diventa addirittura doverosa.
Che sia detto forte e chiaro: questa non è una storia di diavoli. Semmai di poveri diavoli. Lontanissimo da quelle che Ripellino definisce le "truculente stregonerie" del circolo di Praga, Perutz, matematico esperto di teoria delle probabilità (a lui si deve una formula della matematica attuariale), abilissimo giocatore di scacchi e di bridge, non avrebbe mai permesso al sovrannaturale di imporsi così, senza colpo ferire, nei suoi racconti. Egli con il sovrannaturale poteva permettersi di giocare, con gusto sincero, evocandolo, insinuandone l'esistenza, per poi disinnescarlo subito dopo, lasciando intravedere i meccanismi psicologici dell'illusione.
Inutile dunque cercare "diavolerie" nel "Cavaliere svedese". Vi si troveranno, in compenso, i più tipici ingredienti della prosa perutziana: scambi di persona, astuzie da briganti, umorismo, coincidenze inquietanti e un po' di quel sano, indulgente populismo con il quale Perutz ama ritrarre i suoi reietti. Il tutto in una Germania agraria di inizio Settecento, ancora prostrata dalla guerra dei Trent'anni, percorsa da piccoli malfattori che scappano e dragoni che li inseguono, mentre sullo sfondo rullano i tamburi del giovanissimo Carlo XII di Svezia, lanciatosi nel conflitto contro "il Moscovita".
Un ladruncolo atipico, quello del "Cavaliere svedese". Innamorato, certo, ma soprattutto animato dal senso di una vera e propria missione, quella di ristabilire l'ordine in una malconcia tenuta agricola che non gli appartiene, I"'Acchiappagalli" rinuncia al proposito di finire i suoi giorni nelle infernali fucine del vescovo, unico asilo per chi teme la giustizia (e nelle quali alcuni hanno visto un'inquietante premonizione dei Lager nazisti), e decide di lottare "contro quelle forze che per tutta la vita gli erano state ostili".
A farne le spese è il suo compagno di sventura, un nobile e sprovveduto disertore svedese, la cui unica ricchezza è la Bibbia del defunto Gustavo Adolfo, grazie alla quale egli conta di comparire degnamente al cospetto del suo re, Carlo XII. Un simile preziosissimo attestato di identità non può che far gola al ladro, il quale ha trovato nel frattempo più di un motivo per volersi riscattare.
D'altra parte, fra il pane quotidiano e la gloria del suo re, il giovane svedese non ha dubbi: meglio il pane, anche se per guadagnarselo dovrà "scomparire nell'inferno del vescovo, lasciando... al ladro il suo aristocratico nome e l'arcanum portafortuna". Fra i due il patto è concluso e i ruoli vengono scambiati. Il ladro ottiene la Bibbia, non senza aver prima giurato al compagno di farsi onore nell'esercito svedese. Ma ben altri sono i suoi progetti. Ispirandosi al principio che "non puoi procurarti dei giorni buoni senza commettere qualche peccato", si fa astutissimo capobanda di predatori sacrileghi che rubano gli ori e gli argenti delle chiese. Quindi, gli basta procurarsi una divisa da cavaliere svedese con tanto di giustacuore di velluto blu, per diventare perfetto gentiluomo, abilissimo amministratore agrario, fedele marito e affettuoso padre. D'altra parte, egli sente in sé, e in questo Perutz gli crede volentieri, una tempra ben migliore di quella dell"'aristocratica marmaglia" che gli è dato di conoscere.
Ma la nuova vita del cavaliere svedese, per irreprensibile che sia, è pur sempre fondata sul peccato; uno in particolare, l'aver tradito un compagno, è quello che egli stesso non riesce a perdonarsi. Si entra così nel cuore dell'universo perutziano: un personaggio ai margini di un'epoca storica tormentata, porta in sé il peso di una colpa che grava su tutta la sua esistenza. Alla luce del rimorso, ogni avvenimento sembra ormai una stazione sul cammino verso l'espiazione. Presente in quasi tutti i romanzi di Perutz, la Storia è di per sé il luogo in cui l'uomo si trova alle prese con i risultati delle sue azioni passate.
E sono in particolare i momenti di crisi, guerra o rivoluzione ad interessare l'autore, consentendogli di presentare personaggi liberi dai legami sociali e autenticamente soli di fronte alle circostanze di una scelta e alle conseguenze che da essa derivano. In tale contesto, la colpa non è altro che un prodotto del potere di autodeterminazione dell'uomo, una scelta compiuta, che acquista il valore di un ostacolo per il futuro esercizio della libertà. L'idea di una forza sovrannaturale che dirige il personaggio verso la necessaria espiazione proietta nell'ordine della causalità oggettiva l'angoscia di un essere che non si sente più libero.
Quel che più conta è che, mentre il suo eroe, per sopperire ad una conoscenza deficitaria delle cause, postula l'esistenza di una forza che lo trascende, Perutz ammicca al lettore, mostrandogli come, senza scomodare Dio o il diavolo, le azioni e le passioni dell'uomo - i limiti del suo potere di autodeterminazione - siano più che sufficienti a spiegarne il destino, per quanto emblematico esso sia.
Grazie a questa scomposizione dell'illusione sovrannaturale, Perutz trasfigura la sua 'Raübergeschichte' in parabola dell'impotenza dell'uomo a farsi padrone della propria sorte. Che sia la volontà celeste, quella del sinistro mugnaio oppure l'ineluttabile concatenarsi degli eventi, vi è sempre nell'universo perutziano un quid inafferrabile con il quale l'eroe deve, presto o tardi, fare i conti. E al quale egli soggiace.
Dopo sette anni di felicità, il passato peccaminoso ritorna (come sempre nelle opere di Perutz) e si prende la sua rivincita. Giusta espiazione? Non si attribuisca a Perutz uno statuto di moralista che egli non pretendeva di avere. Ciò che gli interessa nel problema etico della colpa è soprattutto la sua complessità, terreno ideale per la costruzione di una minuziosa architettura romanzesca. E il lettore può anche limitarsi ad ammirarne il perfetto meccanismo, in cui ogni elemento si innesta in un edificio narrativo ove tutto si richiama, tutto è necessario.
Ma agli accostamenti indebiti Perutz era abituato, fin da quando F. Torberg lo defin, non senza un certo umorismo, "il risultato di una scappatella di Franz Kafka con Agatha Christie". Egli stesso diceva di scrivere "come E.T.A. Hoffmann", ma anche questo paragone rischia di essere fuorviante. Fu del resto la natura stessa del romanzo perutziano ad imbarazzare i critici: secondo quanto osservò uno di loro, egli come scrittore non impegnato andava troppo a fondo nell''Unheimlich', come autore di "romanzi da viaggio" aveva pretese intellettuali troppo elevate, mentre per poter ambire ad una consacrazione letteraria era troppo coinvolgente. Anche "Il cavaliere svedese" risulta difficile da classificare. E allora ci si rassegni a lasciarlo vivere in questa terra di nessuno, tanto più che l'idea di disorientare critici e lettori avrebbe senz'altro sedotto Leo Perutz.

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Conosci l'autore

Leo Perutz

1884, Praga

(Praga 1884 - Bad Ischl 1957) scrittore austriaco di origine ceca. Matematico di professione, visse a Vienna fino all’Anschluss trasferendosi poi in Israele, dove rimase fino al 1950. Maestro del romanzo fantastico-storico, ha saputo intrecciare accurate ricostruzioni storiche, inquietanti ritratti psicologici e atmosfere cupe e barocche in trame ingegnose, nelle quali il sovrannaturale si insinua gradualmente nel quotidiano fino a distorcerlo. Tra le sue opere: Dalle nove alle nove (Zwischen neun und neun, 1918), Il maestro del giudizio universale (Der Meister des Jüngsten Tages, 1923), Il cavaliere svedese (Der schwedische Reiter, 1934), Di notte sotto il ponte di pietra (Nachts unter der steinernen Brücke, 1953), considerato il suo miglior romanzo.

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