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Il mito dell'analisi - James Hillman - copertina
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mito dell'analisi

Descrizione


Si può dire che questo libro segni il più importante sviluppo della psicologia analitica dopo la morte di Jung. James Hillman ha qui messo in questione lanalisi stessa con una radicalità e una consequenzialità che sconvolgono e scalzano ogni possibile routine delle varie scolastiche (junghiane non meno che freudiane). Dopo che per decenni lanalisi ha preteso di sezionare il mito, qui per la prima volta ci si chiede: qual è il mito che sta dietro allanalisi e la determina nel profondo? La risposta sarà asciutta e dura: quel mito è un mito di dominio (e implicitamente di persecuzione), che risale ad Apollo e alla sua terribile ambiguità di guaritore/distruttore. Quel mito, non a caso, è lunico che lanalisi ha sempre dimenticato di analizzare. E da esso non discende soltanto tutta la pratica clinica positivistica (da cui è germogliata, fra laltro, la psicoanalisi), ma anche tutta una strategia offensiva che la nostra civiltà ha usato in vari àmbiti. Da esso discende quel processo che ha spinto tutto lOccidente a degradare, in fasi successive, limmaginazione, lanima e il femminile, a farne le tre potenze oscure che bisogna innanzitutto ingabbiare. E qui Hillman ci ha dato una magistrale dimostrazione storica, ripercorrendo la formazione del linguaggio della patologia, che ha voracemente inghiottito nella malattia aree immense della vita, e le vicende del mito della inferiorità femminile. Su questultimo tema, sul quale valanghe di scritti si sono ammassate in questi ultimi anni, si direbbe non esista nulla di altrettanto acuto e sostanzioso del saggio di Hillman che forma la Terza parte di questo libro.
Ma, una volta individuati i crudeli segreti che presuppone la pratica dellanalisi, quali vie si aprono (se si aprono)? Per sfuggire alla vendetta di Apollo, dice Hillman, non rimane che affrontare il problema freudiano del «termine dellanalisi» nella prospettiva addirittura di una fine dellanalisi stessa. Riprendendo una splendida immagine di Keats, che parla del mondo come della «valle del Fare Anima», Hillman riconduce tutto ciò che possiamo salvare dellanalisi a questa oscura attività di autoelaborazione dellanima, di trasformazione alchemica del vissuto. Cadranno ovviamente, a questo punto, tutte le inconsistenti pretese scientifiche, che già Jung usava soprattutto per non spaventare troppo i benpensanti. Rimarrà, invece, in tutta la sua potenza, il contatto con le grandi immagini, quellitinerario fra gli archetipi che Jung aveva delineato e Corbin aveva indicato come via dellimmaginale e allimmaginale. Ma questa volta non ci farà da guida laccecante luce apollinea, anzi qui sarà essenziale, come in una prova delle favole, «spodestare lanalista interno, che ha una poltrona nella nostra mente», per avviare quella «trasformazione della psiche in vita» che sfugga finalmente alla «maledizione dello spirito analitico».
Il mito dellanalisi è stato pubblicato per la prima volta nel 1972.
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Dettagli

8
1991
14 ottobre 1991
386 p., Brossura
9788845908583

La recensione di IBS

Si può dire che questo libro segni il più importante sviluppo della psicologia analitica dopo la morte di Jung. James Hillman ha qui messo in questione l'analisi stessa con una radicalità e una consequenzialità che sconvolgono e scalzano ogni possibile routine delle varie scolastiche (junghiane non meno che freudiane). Dopo che per decenni l'analisi ha preteso di sezionare il mito, qui per la prima volta ci si chiede: qual è il mito che sta dietro all'analisi e la determina nel profondo? La risposta sarà asciutta e dura: quel mito è un mito di dominio (e implicitamente di persecuzione), che risale ad Apollo e alla sua terribile ambiguità di guaritore/distruttore. Quel mito, non a caso, è l'unico che l'analisi ha sempre 'dimenticato' di analizzare. E da esso non discende soltanto tutta la pratica clinica positivistica (da cui è germogliata, fra l'altro, la psicoanalisi), ma anche tutta una strategia offensiva che la nostra civiltà ha usato in vari àmbiti. Da esso discende quel processo che ha spinto tutto l'Occidente a degradare, in fasi successive, l'immaginazione, l'anima e il femminile, a farne le tre potenze oscure che bisogna innanzitutto ingabbiare. E qui Hillman ci ha dato una magistrale dimostrazione storica, ripercorrendo la formazione del linguaggio della patologia, che ha voracemente inghiottito nella 'malattia' aree immense della vita, e le vicende del mito della inferiorità femminile. Su quest'ultimo tema, sul quale valanghe di scritti si sono ammassate in questi ultimi anni, si direbbe non esista nulla di altrettanto acuto e sostanzioso del saggio di Hillman che forma la Terza parte di questo libro.Ma, una volta individuati i crudeli segreti che presuppone la pratica dell'analisi, quali vie si aprono (se si aprono)? Per sfuggire alla vendetta di Apollo, dice Hillman, non rimane che affrontare il problema freudiano del «termine dell'analisi» nella prospettiva addirittura di una fine dell'analisi stessa. Riprendendo una splendida immagine di Keats, che parla del mondo come della «valle del Fare Anima», Hillman riconduce tutto ciò che possiamo salvare dell'analisi a questa oscura attività di autoelaborazione dell'anima, di trasformazione alchemica del vissuto. Cadranno ovviamente, a questo punto, tutte le inconsistenti pretese 'scientifiche', che già Jung usava soprattutto per non spaventare troppo i benpensanti. Rimarrà, invece, in tutta la sua potenza, il contatto con le grandi immagini, quell'itinerario fra gli archetipi che Jung aveva delineato e Corbin aveva indicato come via dell'immaginale e all'immaginale. Ma questa volta non ci farà da guida l'accecante luce apollinea, anzi qui sarà essenziale, come in una prova delle favole, «spodestare l''analista interno', che ha una poltrona nella nostra mente», per avviare quella «trasformazione della psiche in vita» che sfugga finalmente alla «maledizione dello spirito analitico».

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Conosci l'autore

James Hillman

1926, Atlantic City

La sua attività pubblica abbraccia un periodo di trentacinque anni, dal 1960 al 1995. Dal 1952 al 1953 ha vissuto in India. Poi a Zurigo, divenendo allievo di Jung.  Subito dopo la laurea al Trinity College di Dublino, aveva iniziato a portare avanti terapie di impronta junghiana già nel 1959, quando è stato nominato Director of Studies del C. G. Jung Institute, dove è rimasto sino al 1969, quando abbandona per una profonda crisi che gli fa rivedere interamente il modo di fare terapia. Nel frattempo nel 1960 aveva pubblicato a Londra il suo primo best-seller scientifico "Emotion: a comprehensive phenomenology of Theories and Their Meanings for Therapy". Nel 1970, diventato direttore delle Spring Pubblications ha lanciato una nuova scuola di indirizzo junghiano...

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