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E' probabilmente vero che Manganelli era "malato d'intelligenza", ma quando sono arrivato alla numero Cento ho pensato che fossero a sufficienza. In aggiunta a questa edizione se ne trovavano altre 20, piu' altre scartate. Ma se il libro si chiama Centurie, mi fermo a cento. Onirico in molti racconti, arguto e nonsense in altri, preciso e mai banale in tutti, è un esperimento necessario per la lingua italiana. Non si legge come insieme di racconti, ma si degusta.
Spesso mi capita di trovare e acquistare qui su ibs libri usati del grande Manganelli, ed in genere in questo mercato dell'usato si possono reperire tante opere di autori di poco conto o all'opposto diversi scrittori di genio definiti impropriamente "difficili", Giorgio Manganelli appartiene senza alcun dubbio a quest'ultima categoria. E mi stupisco del fatto che alcune tipologie di lettori si accostino incautamente a questo incredibile e inclassificabile autore, vero maestro del linguaggio scritto, esteta del lessico e della sintassi, tradizione e avanguardia letteraria, funambolo dell'immaginazione fantastica. La mia non è un'analisi elitaria, ma gran parte delle recensioni degli estimatori di Manganelli, sono in merito alla qualità e tipologia della prosa, abbastanza chiare, tutti affermano purtroppo (ed è vero) che questo scrittore non è per tutti, e non solo per lo stile troppo alto e raffinato, ma anche i contenuti, le sue continue straordinarie astrazioni, i suoi infernali ossimori, questo tipo di narrativa fantastica così fuori dalle righe, diversa, straniante, rende i lavori di Manganelli ostici, incomprensibili al lettore medio. Centuria è semplicemente un capolavoro di tutta la letteratura del '900, è arte allo stato puro, cento micro romanzi di una sola pagina, ogni pagina un multiverso di stile e superba immaginazione, opera questa che non ha nulla da invidiare ai capolavori del maestro J.L:Borges.
Cento e più brevi racconti che non finiresti mai di leggere e rileggere. Assolutamente da non perdere.
Recensioni
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scheda di Roat, F., L'Indice 1996, n. 2
Di Manganelli, a distanza di sedici anni dalla prima pubblicazione, Adelphi ripropone Centuria, composto originariamente da "cento romanzi fiume" dell'ampiezza d'una pagina, a cui nell'odierna edizione sono state affiancate "altre centurie", trentun pezzi, undici dei quali inediti e venti già comparsi nel 1980 sulla rivista "Caffè" -, nonché sette racconti che l'autore aveva scartato. Il volume è arricchito altresì da un'introduzione a firma di Calvino e dal breve risvolto di copertina dell'edizione del 1979, scritto dallo stesso Manganelli.
Come sottolinea nella sua nota al testo Paola Italia - curatrice del volume - questa nuova stampa mira a esaudire il desiderio espresso dall'autore di dar seguito alla prima Centuria con una seconda. In ogni caso la scelta editoriale, riferita a un'opera che certo si colloca fra gli esperimenti linguistici più notevoli dello scrittore, ci sembra costituire un contributo interessante per chi intenda addentrarsi in una "vasta ed amena biblioteca", concepita da un funambolico prosatore, capace di inanellare un centinaio di arditi ilaro-tragici meccanismi narrativi in una collana di perle letterarie, contraddistinta da equilibrio strutturale, scansione ritmica di scrittura e coerenza interna davvero mirabili, pur nell'apparente eterogeneità e caleidoscopia dell'invenzione fabulistica.
Sorta di almanacco antropologico inteso a segnalare - non già a decifrare - gli ambigui geroglifici dei comportamenti umani, "Centuria" si può anche leggere come il catalogo di un eccentrico museo di caratteri, il cui comune denominatore è espresso da un antivitalismo costantemente sospeso sul baratro dell'inazione. Si dispiega una cosmologia fantastica che descrive bizzarri universi narrativi, dove con artificio, retorica e "menzogna" letteraria si cerca di esorcizzare la dolorosa consapevolezza dell'esistenziale parabola "discenditiva" verso il nulla. Così ancora una volta le prose brevi di "Centuria" riassumono e ribadiscono l'antiteologia di Manganelli, intesa a denunciare il non senso di un mondo a cui lo scrittore non vuole attribuire significato alcuno, astenendosi da ogni interpretazione che non sia quella del puro gioco, della finzione appunto, che illustra l'enigmaticità della vita con figurazioni stranianti, le quali rimandano semmai a una catarsi prudentemente scettica e assai poco consolatoria nel suo porsi come allegoria dell'impossibilità di esprimere parole iscritte in un codice di con-senso.
Ma sono forse le "centurie" ulteriori e i racconti scartati a esporsi con più sofferta franchezza nel dire senza troppi paludamenti, barocchismi o difese, il dolore di un vivere nei confronti del quale non sia dato esperire obiettivi, scopi o ragioni. E nelle carceri arcane e inaccessibili che ritornano con insistenza in tali racconti; nelle città debitamente labirintiche e abitate da innumerevoli solitudini; nel sottolineare una claustrofilia fabbricata a difesa dell'angoscia esistenziale, sembra di poter cogliere sprazzi d'una empatia per l'umanità dolente, tutta implicita e discreta, a cui Manganelli tra le righe accenna con timida, ma insistita complicità.
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