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Anno edizione: 1996
Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2020
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Berhard sente avvicinarsi la sua fine e vuole lasciare un libro testamento, un'opera che ha in mente da tempo attraverso cui estinguere la meschinità dell'odiata nuova epoca, l'unico consiglio per salvarsi dall'ottusità del nuovo millennio a chi è destinato a raggiungere quel traguardo è il suicidio. Tutto ha avuto inizio con la fotografia scriveva allora e chissà cosa penserebbe oggi se sapesse che punto di non ritorno il culto dell'immagine ha raggiunto. Credo che il significato del titolo vada ricercato nel desiderio che la razza umana si estingua prima che raggiunga il peggio. Rispetto ad altre opere di Bernhard è più razionale, meno folle, più progettata, segue un filo logico con nessi comprensibili. Il protagonista Murau è un uomo ragionevole in un certo senso, consapevole dei propri limiti e della propria arte dell'esagerazione.
Una delle ultime opere di Bernhard, quasi una summa di tutta la sua attività.L'essere, le cose, vengono frantumate in un crescendo di vortici linguistici.Un tentativo di avvicinarsi al nulla che parte da un presupposto diverso rispetto a quello di Beckett,per giungere alle stesse conclusioni: Il silenzio.
Leggere Estinzione è farsi trascinare nel vortice di un desiderio di distruzione, farsi travolgere dal fiume in piena di un odio che attraversa tutte le pagine del romanzo sino alla conclusione inaspettata. Tutto inizia con un telegramma da cui il protagonista e narratore, Murau, apprende della morte dei genitori e del fratello. Notizia che lo getta nello sconforto non per la perdita subita, ma per la necessità di tornare a Wolfsegg, il paese natale da lui abbandonato per rifugiarsi a Roma e da cui era appena tornato per partecipare al matrimonio di una delle sorelle. Estinzione si rivela dunque, infine, una sorta di antifrasi della Recherche: non più la ricerca, e l’edificazione della cattedrale de ricordo, ma l’Estinzione del Tempo. Assolutamente da leggere.
Recensioni
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recensione di Reitani, L., L'Indice 1997, n. 2
Vi sono titoli che suonano come un congedo dal mondo. È forse per questo che Thomas Bernhard ha lasciato il manoscritto di "Estinzione" per qualche tempo nel cassetto, prima di pubblicarlo nel 1986, quando il suo paese eleggeva, tra lacerazioni e polemiche, Kurt Waldheim a presidente della Repubblica, scoprendone contemporaneamente il passato di ufficiale nei ranghi della Wehrmacht. Tre anni dopo Bernhard moriva al termine di una lunga e dolorosa malattia, che risaliva alla tubercolosi della giovinezza. Sebbene non sia il suo ultimo romanzo dal punto di vista della stesura (lo è "A colpi d'ascia", Adelphi, 1990), Estinzione è così l'ultimo romanzo pubblicato in vita dall'autore, e anche per questa ragione è stato letto come una sorta di suo estremo testamento poetico (su cui già esiste un'ampia letteratura, per la quale si rimanda a un bel volume curato da Hans Höller e Irene Heidelberg-Leonard: "Antiautobiographie. Thomas Bernhards "Auslöschung"", Suhrkamp).
Il protagonista e narratore di Estinzione apprende da un telegramma la notizia della morte dei propri genitori e del fratello maggiore. Inaspettatamente Franz Josef Murau, che conduce a Roma una forma di esistenza artistico-filosofica, si ritrova così a essere l'erede di un immenso patrimonio, concentrato in un castello dell'Austria Superiore, a Wolfsegg. La famiglia, la patria, le origini, dalle quali ha sempre cercato di sfuggire, lo risucchiano in una spirale senza fine di meditazioni e ricordi.
Per oltre trecento pagine le riflessioni di Murau muovono da tre fotografie che ritraggono i suoi familiari. In queste pagine non accade pressoché nulla: il narratore si sposta dalla scrivania alla finestra, guarda le fotografie e le dispone in sempre nuove combinazioni. Si tratta, sul piano della tecnica narrativa, di uno straordinario pezzo di bravura. Non è però un virtuosismo fine a se stesso. La coscienza si confronta qui con le immagini (falsificate) del mondo: un'eco, forse, di "Immagine e coscienza" di Jean-Paul Sartre. Nella "Camera chiara" (dedicato appunto a questo libro di Sartre), Roland Barthes aveva del resto scritto che "in ogni foto c'è quella cosa vagamente spaventosa che è il ritorno del morto". Un'affermazione che sembra calzare perfettamente per la situazione narrativa di Estinzione: attraverso le foto il passato ritorna nella coscienza del protagonista.
Anche questo romanzo di Bernhard si presenta dunque - come già "Correzione" (Einaudi, 1995) o "Il Soccombente" (Adelphi, 1987) - come un processo di "elaborazione del lutto", condotto in una forma radicale. Ma al posto di un narratore che riflette sulla morte di una figura a lui speculare o affine, vi è questa volta un personaggio che medita sulla propria condizione di figlio e di erede. Il lutto investe dunque i rapporti familiari e la critica non potrebbe essere più dura. Murau ritrae suo padre come un opportunista compromesso col nazismo, prigioniero di un'ottusa mentalità burocratica; il fratello maggiore come un uomo precocemente inaridito, condannato a seguire le orme del padre, con il solo estro delle macchine da corsa. Ma gli strali più feroci si appuntano sulla madre, quintessenza dell'incultura, del mondo dell'utile e del denaro, interessata alla sola mondanità, amante di un alto prelato romano. Sono loro, i genitori e il fratello, a rendere Wolfsegg, che pure - si dice - è immersa in uno dei paesaggi più belli dell'Austria, un inferno per il giovane Murau.
Per il narratore Wolfsegg rappresenta dunque il mondo angusto e asfittico delle convenzioni, dell'utile, della burocrazia, il luogo in cui la storia del Novecento (e mai come in questo romanzo la storia dell'Austria è così presente in Bernhard) ha minacciato di schiacciare inesorabilmente l'Io. O almeno una parte di Wolfsegg, giacché Murau sembra distinguere tra esperienze dolorose e ricordi positivi. Decisiva, in questo senso, appare la figura dello zio Georg, che inizia il nipote all'arte e alla letteratura, indicandogli con il proprio esempio un modello alternativo di comportamento rispetto all'ottusità dei genitori.
Nel romanzo di Bernhard, infatti, a Wolfsegg si contrappone l'esistenza libera di Murau a Roma. Nella città italiana Murau stringe intorno a sé rapporti affettivi che sembrano specularmente contrapporsi alla costellazione familiare. La genealogia patriarcale è qui sostituita da una sorta di anti-famiglia liberamente scelta. Al posto della madre troviamo ad esempio la poetessa Maria, in cui palesemente rivive la figura (e il mito) di Ingeborg Bachmann. Ma il rapporto più significativo tra le amicizie romane di Murau è quello con l'allievo Gambetti, a cui il narratore insegna il tedesco. C'è, insomma, qualcosa di utopico in "Estinzione", sottolineato dal finale, in cui l'intera proprietà di Wolfsegg viene donata alla comunità israelitica di Vienna. Un'utopia, ad ogni modo, radicale e distruttiva, che annienta lo stesso protagonista e che è comunque soverchiata dal risentimento e dall'odio verso il luogo delle origini.
Bernhard, tuttavia, non sarebbe Bernhard se questa critica, così accanita e incalzante, non si trasformasse in un ritmo vertiginoso di parole dal respiro musicale (magnificamente reso da Andreina Lavagetto), in un'aria cantabile, la cui leggerezza contrasta con il carattere greve e cupo delle affermazioni; ed è lo stesso ritmo, il meccanismo inesorabile, spiraliforme, delle iperboli e dei superlativi, a conferire alla narrazione l'inconfondibile "vis comica" propria dei testi dell'autore. L'esagerazione sfocia nel grottesco, la tragedia lascia il posto alla commedia. E spesso nel testo si ode una lunga risata liberatoria. "Tutto è ridicolo, di fronte alla morte", aveva scritto Bernhard, e pochi altri autori del nostro tempo hanno mostrato quanto siano labili i confini che separano il tragico dal
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