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Descrizione


Nel mondo della mitologia indù nessuna figura desta più sconcerto di Siva, il "Benevolo", il quale già nell'antifrasi del nome attribuitogli (è lui il dio che presiede alla distruzione dell'universo) si annuncia come luogo dell'ambiguità, delle contraddizioni, del paradosso. La sua inquietante presenza si manifesta fin dai tempi più remoti, nei sigilli preistorici appartenenti alla civiltà della valle dell'Indo che raffigurano un suo enigmatico precursore, un essere itifallico, seduto a gambe incrociate e circondato da animali. Il libro presenta questa mitica figura.
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Dettagli

1997
9 luglio 1997
458 p., ill.
9788845913099

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Lindhorst
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servizio IBS ottimo come al solito.\nil libro è fondamentale per chi voglia attingere all'antichissima sapienza dell'India

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Voce della critica


recensione di Piantelli, M., L'Indice 1998, n. 3

Chi è S'iva, o meglio lo S'iva per antonomasia? La risposta a questa domanda, richiede in primo luogo un po' di preistoria di questo nume singolare. Il termine risale all'età vedica, sotto forma di un remoto e non perfettamente comprensibile epiteto impiegato a scopo apotropaico con il senso di "benevolo, di buon augurio": è stato "l'Inno dei Cento Rudra" nello "Yajurveda" a sancirne l'applicazione in primo luogo appunto ai Rudra (gli "Urlatori" o i "Crudeli") stessi, gli invisibili arcieri che infestano la terra, le acque, le selve, le nebbie e l'aria, colpendo con i loro dardi esiziali, apportatori di pestilenza, uomini e bestiame, come l'Apollo d'Omero. L'indefinita molteplicità di questi personaggi temutissimi, il cui nome non avrebbe dovuto essere profferito nei villaggi, pena la loro evocazione indesiderata, si raccoglie e assomma in un gruppo di undici, o in una coppia di divinità selvagge e violente che corrono nella boscaglia, Bhava (la "Presenza") e Sarva (il "Saettatore"), o ancora in un unico Rudra, invocato nella parte iniziale e finale dell'inno, per cercare di renderlo favorevole al cantore: "Di ottimo augurio ["s'ivatara"] quella ch'è la tua freccia, "s'iva "è divenuto il tuo arco; "s'iva "quella ch'è la faretra tua: con essa a noi, oh Rudra, sii mite! Quello ch'è, oh Rudra, il tuo corpo "s'iva", non-terrifico, senz'impurità lucente, noi con questo corpo fatto di pace, oh Signore dei monti, illumina! Quella freccia, oh Signore dei monti, che in mano rechi per scagliarla, oh tu che vaghi per i monti, rendila "s'iva", non uccidere uomo, essere vivente! Con parola "s'iva" te, oh Signore dei monti, invochiamo, affinché per noi ogni vivente sia sano, di buona mente! (...) Disarmato l'arco, oh tu dai mille cocchi, dalle cento faretre, fatte tornare indietro le teste delle frecce, "s'iva" a noi, di buona mente sii!"
Sfuggente, angosciante, terribile nel suo mistero, Rudra ci appare, a differenza delle altre figure divine che i "Veda" generalmente ci presentano in termini prevedibili, irriducibile a una funzione o forma determinata, legato com'è a ruoli e sfere d'azione diverse e addirittura opposte.
Egli è il "rosso Cinghiale" che, su sollecitazione degli dèi, con il suo arco infallibile compie imprese memorande come l'evirare Dyaus, il Cielo, intento a violentare l'Aurora sua figlia, e il trafiggere con un sol colpo le tre città volanti degli anti-dèi (gli Asura), magiche rocche fatte rispettivamente d'oro, d'argento e di ferro, luoghi cubici della resurrezione come la Gerusalemme celeste dell'"Apocalissi" giovannea. Ma egli è anche la personificazione del pilastro ligneo cui è legata la vittima sacrificale prima d'immolarla, e a lui appartengono i resti di essa dopo il suo smembramento, accordatigli dopo che aveva messo in fuga con il suo arco gli dèi che l'avevano dimenticato nella distribuzione delle parti, come la fata malvagia al battesimo della principessa nella favola de "La bella addormentata".
Questo aspetto di escluso vendicativo è in sintonia con il suo esser patrono e archetipo dei Vràtya, una sorta di zingari del mondo vedico, insieme maghi e guerrieri, e dei Kes'in (i "Chiomati") che "bevono alla coppa di Rudra", misteriosi personaggi che errano nudi nei luoghi deserti, vestiti di sudiciume, vagando per i sentieri del vento. Forse è qui che la sua figura di Grande Asceta prende le mosse... Certo egli è presente anzitutto fuori dal mondo rassicurante del villaggio, sui monti e nei deserti, come il biblico Yhwh, ma altresì nei termitai, nei pozzi, nelle tombe e nei crocicchi, luoghi da cui si accede al mondo sotterraneo, il che gli conferisce una paurosa valenza ctonia; allorché l'uomo vedico si allontana dal luogo consueto del vivere umano e s'avventura nella boscaglia, prega che gli sia risparmiata l'esperienza raccapricciante dell'incontro con questo Nume radicalmente altro. Le portatrici d'acqua e i pastori lo scorgono all'improvviso lungo i fiumi, terrorizzati: come il Merlino delle leggende arturiane, egli si mostra talora in aspetto di fanciullo, talora di vegliardo, talora di nano, o di gigante, talora calvo, talora chiomato, a volte magrissimo o grottescamente obeso, verdastro, arancione, nero e vermiglio, riconoscibile dalla gola di colore blu scuro, quasi l'archetipo della vittima umana uccisa per strangolamento nel più sacro e terribile dei riti vedici.
Un ricordo di questa connessione Dio-vittima è ancora, diversi secoli dopo, nel "Mahaîbhaîrata", dove si allude al fatto che egli si sia autosacrificato, come l'Odino dell'"Edda", acquisendo in tal modo l'universale Dominio: "L'onniforme Gran Dio, nel Sacrificio universale dalla grande vittima, sacrificò tutti gli esseri e così pure se stesso da se stesso (...) Il Gran Dio nel Sacrificio avente il tutto come vittima, egli magnanimo, avendo sacrificato se stesso, si manifestò qual Dio degli dèi. Tutti i mondi avendo pervaso, resili saldi a sua gloria, risplende per ampio raggio, possessore di fulgore, egli rivestito d'una pelle". Perché Rudra, già negli inni che nel "R.gveda" gli sono dedicati, è invocato, nel suo aspetto più elevato, proprio come detentore per eccellenza di tale prerogativa: egli è Iîs'vara (il "Possente", il "Signore"), che con le sue IîsaînÝî (le "Signorie") regge tutti i mondi, il Primogenito dei numi, il Pastore degli esseri, il Medico che con le erbe salutari arrecate dalla sua mano buona e soccorrevole salva dalle infermità inviate dagli dèi. Conoscerlo, Uno nel molteplice divenire delle cose, dirà l'"Upanis.ad" nota come "S'vetaîs'vatara", significa essere immortali.
Nell'India postvedica i tratti sinistri del suo carattere sono assunti a segni del ruolo di Distruttore/Riassorbitore cosmico, e il volto del divino ch'egli rappresenta si fissa in un'iconografia minuziosissima, forse in parte debitrice di un background che s'estende anche al Vicino Oriente: il toro e il tridente che lo contraddistinguono ricordano il dio delle tempeste siro-anatolico (Hadad, Teshub, probabilmente in origine lo stesso Yhwh) ritto sul toro con in pugno la folgore tricuspidata, talora accompagnato da una figura femminile ritta sul leone, come sul leone è assisa Umaî, la paredra di S'iva il cui nome, su cui invano si affaticano nei secoli i lessicografi indiani in cerca di etimologie, sembra potersi leggere come un termine semitico sanscritizzato (da avvicinare ad esempio all'arabo Umm, "Madre").
I tre occhi del dio, assimilati a sole, luna e fuoco, le chiome rossastre incolte o intrecciate a formare uno chignon simile a un'alta tiara, nei cui meandri scorre il Gange disceso dal cielo, gli otto grandi cobra divini che come collane e armille ornano il suo corpo, le ceneri che ne ricoprono interamente la persona, la pelle di tigre o d'elefante che gli fa da veste ne fanno un personaggio inconfondibile, riproposto nei millenni dalle arti figurative del subcontinente giù giù fino ai coloratissimi film mitologici contemporanei e ai poster e fumetti naïf che ne dipendono, con tratti familiari agl'indiani come il saio e la barbetta di san Francesco o l'armatura e le ali dell'Arcangelo Michele ai cristiani. Nondimeno, il suo aspetto e le sue abitudini ne fanno un paradosso, anzi il Paradosso personificato. Canta il mistico Utpaladeva: "Al Signore dell'Illusione cosmica che pure è assolutamente puro, al Segreto che pure è la Coscienza totalmente evidente, al Sottile che pure ha come sua forma l'universo, prosternazione alla straordinaria Scaturigine della gioia!".
Per i suoi devoti, che talora si compiacciono di imitarne la tenuta e le abitudini, questo personaggio è infatti non un dio tra gli altri, ma Dio "tout court". Il suo aspetto concentra in una variopinta galassia di simboli sempre di nuovo analizzati gli attributi d'una Coscienza universale ch'è, a seconda delle opzioni teologiche abbracciate dall'una o dall'altra scuola, l'unica Realtà, o il Fondamento ultimo delle realtà minori costitutive dell'orizzonte della molteplicità: una Realtà che è puro Amore ("Ambe Civan_", secondo l'adagio dei mistici di lingua tamil), e al tempo stesso infinita Libertà, capace di tutto, anche di negare se stessa per lasciare uno spazio al mondo.
Il lettore italiano ha avuto accesso ad alcuni testi di questo pensiero raffinato ed estremamente suggestivo, come quelli del mistico dell'XI secolo Abhinavagupta curati da Raniero Gnoli: "Commento breve alla Trentina della Suprema", Boringhieri, 1965; "Luce delle sacre scritture (Tantraîloka)", Utet 1972; "Il commento di Abhinavagupta alla Paraîtrim.s'ikaî", Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Utet, 1985; "Essenza dei Tantra", Rizzoli, 1990.
S'iva in quanto Dio presenta in sommo grado, segnatamente nell'innologia devozionale che gli è indirizzata, i caratteri di quel "mysterium tremendum et fascinans" che piacque teorizzare a Rudolf Otto nel suo classico saggio degli anni venti, "Das Heilige": innanzi a lui non si può restare indifferenti, egli attira e respinge, conturba e rasserena, invita chi lo ricerca a una quiete solenne fatta di silenzio arcano, ma anche a un selvaggio abbandono che può sfociare nel sacrificio umano e nel cannibalismo sacro, come presso il famigerato movimento dei Kaîpaîlika ("quelli del teschio"), celebre anche per le sue intemperanze erotiche.
Il simbolo venerato nel "sancta sanctorum" dei templi di S'iva, il "Lin.ga", immagine stilizzata del pene divino che emerge dalla vulva universale, ci ricorda che il Dio unisce in se stesso, come il Protogono orfico della nostra tarda antichità, i due sessi, simboleggiando nel suo aspetto androgino l'unione della Luce impassibile e inattiva della Coscienza divina, il Purus.a ("Maschio"), con l'aspetto attivo e cangiante della Realtà in quanto Prakr.ti (la primordiale "Natura-Vulva") da cui esce il mondo dei nomi e delle forme, assimilata alla Maîyaî (l'"Illusione/Magia") con cui nel suo gioco divino egli di volta in volta vela e disvela se stesso a se stesso. Allorché le due metà, maschile e femminile, sono divise, l'articolazione tra di esse è colta non solo in una serie di teologumeni che rammentano gli esiti del discorso occidentale sulla vita intertrinitaria della Divinità, ma anche in una doviziosa fioritura di miti.
Sono appunto queste a formare l'oggetto del libro qui presentato - e "non* recensito: ché una recensione sarebbe in ritardo di quasi un trentennio! Chi scrive queste righe ha già avuto occasione di presentare al lettore italiano la figura e il lavoro di Wendy Doniger (già sposata O'Flaherty, cognome sotto cui le sue opere figurano in tutte le bibliografie), personalità decisamente "flamboyante", in giovinezza (nacque nel 1940 a New York) ballerina classica, che unisce studi indologici e religionistici a una brillante "verve" di saggista interessata ai temi del femminismo e della psicoanalisi.
Ciò avveniva in appendice alla ricca silloge mitografica da lei edita sotto il titolo "Hindu Myths. A Sourcebook Translated from the Sanskrit" nel 1975 e tradotta con il titolo "Dall'Ordine il Caos. Miti dell'Induismo raccolti e presentati da Wendy Doniger O'Flaherty" presso Guanda nel 1989. Concludendo quella scheda biobibliografica, egli lamentava l'assenza di traduzioni nella nostra lingua dei testi più significativi della studiosa, augurandosi che l'uscita dei "Miti" giovasse a sensibilizzare in proposito l'editoria. È dunque con vero piacere che accoglie ora l'intelligente iniziativa adelphiana di dare alle stampe quei testi, cominciando con l'imponente studio che consacrò la Doniger come indagatrice dell'universo prodigiosamente complesso del mito indiano.
"Asceticism and Eroticism in the Mythology of S'iva" riprendeva le fila di una ricerca pluriennale condotta in tre continenti, i cui risultati erano apparsi nel 1969 in due voluminosi articoli nella rivista "History of Religions" e due anni dopo in altri scritti sia nella rivista "Puraîn.a" sia nel "Journal of the Royal Asiatic Society". L'autrice vi passava in rivista un estesissimo corpus di miti accentrati attorno alla figura del Dio in connessione a ruoli sessuali. L'influenza dell'approccio strutturalista allora in voga è specialmente visibile dall'articolazione dei motivi mitologici, accuratamente elencati e catalogati nelle loro numerose varianti in un apparato richiamato ogni volta in margine al testo, tali richiami essendo stati poi lasciati cadere nella riedizione del 1980, quella messa oggi a disposizione del lettore italiano. Il libro non pretendeva, ovviamente, di trattare tutti gli aspetti della figura divina in discorso, né tantomeno di esaurirne la mitografia. Esso si concentrava sulle narrazioni d'età classica e mediovale giudicate utili a por meglio in luce l'ambivalenza dei ruoli suaccennati in tutte le sue implicazioni, riassunte e commentate di volta in volta con un taglio espositivo vivace e non privo qua e là di humour, com'è nello stile dell'autrice.
I miti indiani, giova ricordarlo, non sono presentati nelle opere della Doniger nella loro forma completa: ai fini della discussione ella ne seleziona le trame, fornendo sufficienti elementi per il confronto delle diverse varianti, ma omettendo gli elementi ai suoi occhi esornativi, in particolare sia le lodi del narratore alle figure divine sia l'innologia vera e propria: parti essenziali nella coscienza indiana, che giustificano la recitazione solenne e il canto dei testi mitici in connessione ai riti celebrati nelle loro festività. In effetti, la prospettiva devozionale che ha assicurato la conservazione dei testi che l'autrice studia - e che ne perpetua la fruizione da parte del popolo e dei dotti - è messa da lei più o meno tra parentesi nel corso dell'analisi narratologica, attenta ai dettagli dell'interazione tra le figure divine assai più che alla loro divinità. Questo ne ha reso l'opera poco popolare in India, ancorché la sua erudizione sia riconosciuta e ammirata.
La trattazione che fornisce al libro il suo titolo abbraccia i capitoli dal quinto al nono, dedicati: al triangolo formato da S'iva, Umaî e Kaîma (l'Amore personificato), dove il terzo elemento, che dovrebbe congiungere i primi due, si presenta in rapporto conflittuale-complementare con il primo, allorché il Dio incenerisce con la fiamma dell'occhio frontale il Cupido indiano, che lo prendeva di mira con il suo arco fiorito onde assicurare la procreazione di un figlio impareggiabile capace di trionfare per conto degli dèi contro i loro avversari - Skanda detto anche Kumaîra (il "Principe") -, e allorché lo risuscita in occasione delle proprie nozze con la Dea; al paradossale ruolo di seduttore esercitato dal Nume nell'aspetto di giovane e attraente mendico nudo (la celebre Bhiks.aît.anamuîrti) nei confronti delle pie spose dei veggenti della Selva dei pini, storia che è un po' il contraltare s'ivaita della seduzione delle GopÝî da parte di Kr.s.n.a fanciullo nei testi della tradizione vis.n.uita; al doppio ruolo di S'iva come Grande "Yogin*, votato alla più rigida castità, e come partner amante-amato della Grande Dea, la cui vita coniugale, di volta in volta idilliaca e tempestosa, è un tema caro a poeti e letterati dell'India in ogni tempo, cominciando dal bellissimo - e molto imitato! - "Kumaîrasambhava" di Kaîlidaîsaî; agli aspetti mitico-simbolici più particolarmente connessi agli organi sessuali della coppia divina e alle loro funzioni, viste in una complessa dialettica tra ritenzione dello sperma e procreazione; all'alternanza in S'iva tra continenza e coito, entrambi spinti all'eccesso e di conseguenza portanti all'esigenza di passare al comportamento opposto come una sorta di correttivo riequilibrante.
Questo, che è il nucleo dello studio e il centro degli interessi dell'autrice, è introdotto nei primi quattro capitoli da un "cappello" metodologico e da una dettagliata presentazione degli elementi appartenenti allo sfondo preclassico, a partire dai "Veda", così come degli antecedenti la cui conoscenza è necessaria alla comprensione dei testi: l'autoevirazione di Rudra e la sua rivalità-complementarietà con il proprio padre-figlio, il Demiurgo indiano, Brahmaî. Si tratta di un vero paradiso per analisti freudiani ortodossi...
Nei decenni trascorsi dalla sua apparizione, l'importanza del lavoro - che non ha avuto finora epigoni ad esso paragonabili per vastità di orizzonti e qualità dell'approfondimento - si è più volte manifestata, in primo luogo attraverso le sue influenze: così in debito con la Doniger sono tanto la storica dell'arte e dell'iconografia dell'India Stella Kramrisch, che nel suo interessante "The Presence of S'iva", Oxford University Press, 1981, offre una lettura in chiave simbolica del materiale mitografico già affrontato dalla collega, quanto Jacques Scheur, che compie una ricerca parallela in "S'iva dans le Mahaîbharaîta", Puf, 1982, o i molti studiosi che, a fianco della Kramrisch e della stessa Doniger, hanno contribuito al maestoso volume collettaneo "Discourses on S'iva. Proceedings of a Symposium on the Nature of Religious Imagery", University of Pennsylvania Press, 1984", "sviscerando i più diversi aspetti della costellazione di attributi ed epiteti pregni di valenze simboliche e allusioni mitiche che affollano la persona del nume nelle visioni che ne sono fornite da arte e testi nel corso dei secoli.
La stessa produzione successiva dell'autrice è segnata dal suo "magnum opus". Ciò è vero anzitutto per quanto tocca la sapiente messa a profitto dell'ingente massa di dati raccolti, riscontrabile in lavori quali i "Miti" dianzi citati e l'accattivante e documentatissimo saggio "Women, Androgynes and Other Mythical Beasts", The University of Chicago Press, 1980, che continua e approfondisce il discorso di "Asceticism and Eroticism", soffermandosi sulla dialettica dei fluidi sessuali, l'opposizione-complementarietà Grande Dio-Grande Dea, il simbolismo della danza di S'iva, la connessione del Dio con il fuoco sottomarino che consuma le acque degli oceani impedendo loro di traboccare, il fuoco emesso nel mito dalla testa di una tremenda giumenta nata dalla sua ira, e, naturalmente, la forma androgina di Ardhaînariîs'vara, di cui s'è detto.
Ma anche più importante è il peso del nostro testo come primo momento della riflessione della Doniger nei confronti del mito nella visione indiana e, più in generale, in quanto categoria universale oggetto delle scienze religiose (non dimentichiamo ch'ella è succeduta a Mircea Eliade nella prestigiosa cattedra di storia delle religioni dell'Università di Chicago). A parte le osservazioni sparse qua e là nella maggior parte dei suoi scritti, alcuni di essi vertono più strettamente su un coerente e personale sviluppo di questa tematica. La concezione espressa in "Asceticism and Eroticism", secondo cui "la 'spiegazione' definitiva del ciclo mitologico è (...) il ciclo stesso, riletto con un orecchio più attento ad almeno alcune delle risonanze e delle armonie nascoste dietro le fuggevoli immagini", è rimasta sostanzialmente immutata attraverso le linee dello sviluppo in discorso. In "Other Peoples Myths: The Cave of Echoes", MacMillan, 1988, la Doniger dichiara: "Sicché le storie sono il metodo in questo libro, non ve n'è un altro. Le storie rivelano cose che non sono facilmente divinate da parte delle discipline più dure (...) Ma le storie non sono disegnate come argomentazioni, né van prese per argomentazioni. Le storie ci provvedono di metafore che ci rendono reali le argomentazioni (...) Per me, esse sono un modo di pensare che funziona meglio dello sviluppo d'una argomentazione un passo dopo l'altro. Il lettore può chiedersi, di tanto in tanto, se io non sia partita per la tangente, mettendomi a raccontare storie e perdendo il filo della puntualizzazione che volevo fare. Ma le storie "sono" la puntualizzazione che volevo fare; sto raccontando storie metodologiche sulle storie che sto raccontando. Le metodologie sono, dopo tutto, anch'esse delle storie, e ogni novellatore è un metodologo".
È vero, purché si tratti di un novellatore in gamba, e avvertito delle implicazioni del suo raccontare: ciò vale certamente per l'autrice che, lo scrivemmo e lo ripetiamo, è una "novellaia" formidabile. Il testo non è solo interessante nei suoi risvolti scientifici, ma di gradevole lettura. Peccato che costi tanto più caro della ristampa in lingua originale. Le esigenze degli editori, che devono tentar di sopravvivere anche a prezzo di una scelta elitaria, meritano considerazione, ma tra i loro esiti v'è, fatalmente, quello di scoraggiare i meno abbienti, falcidiando ancora la sparuta pattuglia dei potenziali lettori in un paese dove il piacere del libro sembra restringersi alle classi d'età in via d'estinzione...

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