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La mia vita (Il quaderno rosso) - Benjamin Constant - copertina
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La mia vita (Il quaderno rosso) - Benjamin Constant - copertina
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Descrizione


Constant racconta qui i primi vent'anni della propria vita: la nascita, l'educazione discontinua sotto la guida di un padre vedovo, sino alla fuga in Inghilterra. Il narratore non risparmia il sale dell'ironia neppure alla sua persona e ai suoi amori. Dal suo beffardo umorismo si salva solo l'amica di sempre, cui sono dirette le bellissime lettere dall'Inghilterra che completano il volume.
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Dettagli

1998
25 febbraio 1998
160 p.
9788845913556

Voce della critica


recensione di Lauro, C., L'Indice 1998, n. 7

Forse è questo il momento di Benjamin Constant. In Germania e in Francia partono iniziative editoriali di grande impegno (corrispondenza, opere complete): probabilmente oltre al letterato, mai eclissatosi, si riscopre il padre fondatore del liberalismo moderno (in piena consonanza con gli attuali sviluppi ideologici).
Del resto, Constant stesso, in vita, affidò la sua fama agli innumerevoli scritti storico-politici e di storia delle religioni: ma a custodirla intatta sino a oggi fu prevalentemente la sua unica pubblicazione letteraria, "Adolphe" (1816).
I manuali di storia letteraria fecero presto ad associare "Adolphe" ad altri due esemplari del "mal du siècle", il "René" di Chateaubriand e l'"Obermann" di Sénancour (a loro volta figliastri del "Werther" di Goethe). In realtà le somiglianze erano di superficie: Constant era completamente svincolato dal lirismo compiaciuto dei predecessori e, sulla scia del romanzo psicologico classicamente francese, aveva scritto un'opera di lucida secchezza, di proporzioni essenziali, senza una sbavatura.
Romanzo di analisi quanto mai sottile (degno dei riconoscimenti di Stendhal e André Gide), "Adolphe" fu anche, in certa misura, popolare. Balzac nella sua "Musa del dipartimento" (1843) descrive la devozione della sua eroina di provincia per il romanzo di Constant in quanto bibbia comportamentale per la propria difficile situazione sentimentale. Il nucleo della fortuna di "Adolphe", in ogni caso, dipendeva, più banalmente, dalla generale consapevolezza che si trattasse di una narrazione "à clef" non poco intrigante: cioè che la vicenda di Adolphe e di Ellénore celasse la "vera storia" del suo autore, Benjamin Constant, e di Madame de Staël. Personaggi, tutti e due, di primo piano nel mondo politico e letterario. Né alcun depistaggio di Constant - un articolo sul "Morning Chronicle", la prefazione alla seconda edizione del libro - riuscì a smontare l'opinione comune e la sua aura di pettegolezzo elevato, alla Sainte-Beuve.
Il Tempo, del resto, avrebbe confermato che non esiste in Constant osservazione del cuore umano che non sia autobiografica. Parecchi decenni dopo la sua morte (1830) - il caso ricorda la famosa "resurrezione" di Stendhal - si ebbe difatti la sequela dei ritrovamenti postumi: il "Journal Intime" nel 1895, "Ma Vie" (più nota come "Cahier Rouge") nel 1907, e "Cécile" (breve e incompiuto romanzo) nel 1951. L'isolamento di "Adolphe" finiva e il Constant letterato apriva prospettive sempre più interessanti. Prospettive comunque legate al filo rosso di un autobiografismo di grande riserbo, non propriamente pensato per un pubblico. I diari contengono frasi preziose per confermare questo scrivere per sé: "Esistono in me due persone, una è osservatrice dell'altra" (11 aprile 1804). O, ancora più chiaramente: "Ho bisogno di conoscere la mia storia come fosse quella di un altro, per non dimenticare e ignorare continuamente me stesso" (21 dicembre 1804). Scrivere per non perdere se stessi, un tentativo di ricomporre una personalità che nonostante le sue "qualità eccellenti" non si sente affatto un "essere reale" (11 aprile 1804); un'analisi puntualissima e attenta di un carattere irrimediabilmente contraddittorio, con "la mania dell'indipendenza e dell'isolamento" e poi, nei fatti, "l'uomo più dipendente dagli altri e il meno isolato". Contro questa specie di "follia" che "inonda e devasta" la sua vita (13 marzo 1805), appunto, Constant tenta di mettere ordine a più riprese. Il "Journal" - pur con alcune intermittenze - copre gli anni dal 1803 al 1816. Ma all'interno di questo lasso di tempo c'è "Adolphe" (che è già terminato nel 1806), e quasi certamente è ascrivibile agli stessi anni "Cécile" (trasposizione di un bivio sentimentale spinoso: tra Charlotte de Hardenberg e la solita Madame de Staël).
Per ricordare due esperienze come queste, l'appunto diaristico lascia il passo, in Constant, al più sistematico svolgimento di una storia, al "romanzo". Ma, soprattutto in "Cécile", la traccia del vissuto resterà di una evidenza quasi commovente. C'è assai poco di "fiction* romanzesca in questo sobrio referto di complicazioni amorose, senza dialoghi o descrizioni, tutto imperniato su alterni avvicinamenti e allontanamenti (geografici, sentimentali) rispetto ai due poli di attrazione (le grazie della giovane, il fascino anche intellettuale della donna matura: anticipazione dei due grandi romanzi di Stendhal e del "Lys dans la vallée" di Balzac). E, come in "Adolphe", il protagonista maschile esperisce la passionalità in modo inversamente proporzionale alla certezza di essere ricambiato: timoroso e diffidente degli assestamenti, intraprendente e quasi generoso nei frangenti. Il motto di Constant ("solum inconstantiae Constant") sarebbe l'epigrafe ideale per entrambi i romanzi.
Poi, sempre contemporaneamente ai "Journaux", e precisamente nel 1811, a quarantaquattro anni, il Constant che ricerca se stesso progetta qualcosa di più sistema-tico: "Ma Vie", appunto, che si arresta però bruscamente ai primi vent'anni dell'autore (1767-1787). Anche qui si è tentati di pensare a un riassetto personale di memorie. Come scrive Lucia Omacini nella eccellente postfazione, la mancanza di un preciso patto narrativo col lettore fa pensare che anche la scrittura di "Ma Vie" sia "assimilabile a quella sostanzialmente autoriflessiva che caratterizza i "Journaux Intimes"" (a parte, forse, alcuni ambigui elementi discorsivi che potrebbero anche presupporre un interlocutore: li passa tutti al vaglio l'analisi testuale di Omacini).
In ogni caso, si sa, gli interlocutori effettivi di Constant furono, come sempre, i posteri. I quali appunto, con un secolo di ritardo, reperirono, entro la mitica rilegatura rossa ("Le Cahier Rouge") un testo di grande e comprovabile schiettezza, senza le premesse solenni del memorialista: non le pretese di sincerità e le continue autogiustificazioni di Rousseau, né il solenne "tombeau" e le menzogne sublimi di Chateaubriand.
Sin dalle prime pagine spicca una narrazione sveltissima e sobria, senza la malinconia analitica dei due romanzi. Forse per ciò Mario Luzi nel suo saggio su Constant intitola "Constant sorride" il capitolo sul "Cahier Rouge". E torna in mente anche un bel riconoscimento su Constant contenuto nei "Mémoires d'outre-tombe": l'uomo che ha avuto "le plus d'esprit" dopo Voltaire.
L'"esprit", certo, domina in questo sguardo retrospettivo verso l'infanzia e la prima giovinezza, nostalgico e spietatamente ironico verso se stesso. Stilisticamente quasi bipartito, il "Cahie"r, nel ritmo accelerato della sua prima parte, ricostruisce la grottesca sequela di pessimi precettori dell'infanzia di Constant (in un succedersi meccanico di infortuni alla "Candide"), le prime e quasi mai felici conquiste femminili (l'unica di duratura importanza, in questi anni, sarà Madame de Charrière), e la cruciale figura paterna che, attraverso missive e intimazioni da città distantissime, tenta con alterno successo di allontanare il giovane Benjamin dagli influssi degli uni e dalle seduzioni delle altre attraverso repentini spostamenti logistici (preferibilmente in direzione della propria ala protettrice).
Poi, proprio con la prima trasgressione all'autorità del genitore e la conseguente decisione di intraprendere il giro in Inghilterra, l'accelerazione del testo visibilmente decresce. La narrazione "inglese" letteralmente si slarga e prende respiro attraverso le peregrinazioni in un paese che Constant, sulla scia dell'ammirazione espressa da Voltaire e in anticipo su quella di Chateaubriand, definisce "asilo di tutto ciò che è nobile, soggiorno di felicità, di saggezza e di libertà" (con la velata animosità antiimperiale dello scrivente liberale del 1811). La nostalgia del "Cahier" per l'erranza giovanile, per le belle conquiste, i duelli incoscienti, il gioco, i cavalli, gli incontri scapestrati, coincide forse con quella per un tempo storico e politico diverso.
Questo annotatissimo e molto ben tradotto volume dell'Adelphi include anche alcune lettere che il giovane Constant inviò dall'Inghilterra alla sua "geniale" Madame de Charrière. La loro bella vivacità non finisce di stupire e invoglia decisamente a conoscere meglio la "Correspondance" di un introverso così sociale.


BIBLIOGRAFIA CRITICA a cura di Giovanni Paoletti

L'opera di Benjamin Constant è solo parzialmente disponibile in italiano. Il capolavoro letterario, il romanzo "Adolphe, "si può leggere nelle due ottime traduzioni di Oreste Del Buono (Einaudi, 1985) e Massimo Bontempelli (Es, 1996). Quanto agli scritti autobiografici, si segnala l'edizione Einaudi (1969) dei "Diari", a cura di Paolo Serini. Una traduzione di "Cécile" è apparsa da Liguori (1986). Della corrispondenza è disponibile soltanto l'epistolario a senso unico che documenta l'amore non corrisposto di Constant per M.me Récamier, con la cura esperta di Lucia Omacini: "La porta chiusa. Lettere a Juliette Récamier (1814-1816)" (Serra e Riva, 1982).
La situazione degli scritti politici è piuttosto irregolare, e pare in ritardo sulle recenti vicende editoriali di Constant all'estero. Gli scritti giovanili (1796-97) sono tutti tradotti, in ordine sparso: "La forza del governo attuale. Sulla necessità di uscire dalla Rivoluzione" da Donzelli (1996, a cura di Marina Valensise), le "Reazioni politiche" da Bruno Mondadori (in Immanuel Kant, Benjamin Constant, "La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica", a cura di Andrea Tagliapietra, 1996), "Gli effetti del Terrore" nello stesso volume di Bruno Mondadori e da La Rosa (in Adrien Lezay-Marnésia, Benjamin Constant, "Ordine e libertà", a cura di Mauro Barberis, 1995). Facilmente reperibile anche il celebre "Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni", del 1817 (Editori Riuniti). Invece, della fase matura della produzione constantiana soltanto l'opera antinapoleonica "Conquista e usurpazione" (1814) è ancora disponibile (Einaudi, 1983), mentre sono esauriti i "Principi di politica" del 1815 (Editori Riuniti, 1970): entrambi gli scritti attingevano largamente ai fondamentali manoscritti del periodo napoleonico, la cui riscoperta, negli ultimi vent'anni, ha rivoluzionato gli studi su Constant, ma che restano disponibili solo in francese. Un'"Antologia di scritti politici" è stata pubblicata dal Mulino (1982, a cura di Antonio Zanfarino).
Nella bibliografia critica in italiano spiccano gli ottimi lavori di Mauro Barberis: "Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso "(Il Mulino, 1988) e "Sette studi sul liberalismo rivoluzionario" (Giappichelli, 1989). Molto interessante lo studio già citato della disputa che ebbe luogo nel 1797 fra Kant e Constant sul "diritto alla menzogna", di Andrea Tagliapietra. Un utile strumento sintetico è il "Constant" di Stefano De Luca (Laterza, 1993, con antologia di scritti). Segnaliamo inoltre, di Carlo Violi, "Benjamin Constant e altri saggi" (Herder, 1992) e, di Biancamaria Fontana, "Benjamin Constant e il pensiero postrivoluzionario" (Baldini & Castoldi, 1995), che tenta un approccio interdisciplinare a tutta la produzione di Constant: come anche il recente saggio di Tzvetan Todorov, "Benjamin Constant. La passion démocratique "(Hachette, 1997). Ricordiamo infine che sono usciti i primi volumi delle monumentali "Oeuvres complètes" di Constant, presso l'editore Niemayer di Tubinga.

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