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Libro affascinante
Per chi non conosce il Burroughs della tetralogia del Pasto nudo questo romanzo può apparire uno come tanti altri,forse anche inconcludente.In realtà è un romanzo dalla trama semplice e lineare che nasconde dietro significati complessi,come tutte le opere dell'autore. Burroughs riesce ad essere doloroso e degradante pur abbandonando in parte le visioni degi altri suoi romanzi. Che peccato,a volte,che alcuni libri siano cosi corti!
sicuramente da leggere se si è interessati allo scrittore W. Burroughs, alla sua vita; per cercare di capirlo un po' meglio. come storia non è niente di speciale, è scritta alla maniera dei beat, come una sorta di diario ma a mio parere molto interessante, sconvolgente e illuminante. certo non un modello da imitare ma almeno da conoscere e , per quanto possibile, comprendere
Recensioni
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A detta di Burroughs, che evoca e commenta l’evento in una delle prime pagine del libro, la sua vocazione di scrittore avrebbe una data di nascita precisa, il settembre del 1951, allorché – reso incosciente dalla droga – uccise con un colpo di pistola la moglie Joan. Compresi allora – sanziona l’autore – che dovevo "scrivere la mia via d’uscita". La letteratura come atto penitenziale, quindi, come psicoterapia, come pratica esorcistica. Può ben essere che le cose stiano così, ma mai come nel caso di Burroughs il privato, almeno questo privato, sembra avere una ricaduta irrilevante nell’opera, attraversata da altre tensioni, che coincidono con le contraddizioni degli Stati Uniti a partire dagli anni cinquanta, sovrapposte alle azioni ora ardimentose, ora velleitarie, ora patetiche di una gioventù irrisolta. E poiché il mondo esterno, sia pure uscito di sesto, si dimostra ogni volta più forte di qualsiasi ansia di salvezza, il movimento di questi giovani, tutti, dai beatnik a salire (o a scendere), si trasforma presto nel moto senza speranza di una falena che gira vorticosamente attorno a un fuoco, prima che questo la attiri e la bruci. Il viaggio impossibile, tanto all’interno che all’esterno della coscienza, è anche il disegno portante di Checca, che Burroughs scrisse negli anni cinquanta, diede alle stampe nel 1985, e che ora Adelphi presenta al lettore italiano nell’impeccabile traduzione di Katia Bagnoli. Qui il protagonista Lee, solitario y final, tossicodipendente senza pentimenti, omosessuale senza complessi, va nientemeno che alla ricerca dell’amore. Vorrebbe trovarlo nel giovane Allerton, ma già il primo incontro adombra una sconfitta inevitabile: "Una faccia equivoca, molto giovane, per bene e infantile, che allo stesso tempo sembrava truccata". Fra il passionale Lee e un Allerton "freddo e scivoloso" nascerà una relazione effimera, che il protagonista vivrà fra momenti di gioia e spasmi di dolore. Riuscirà solo a coinvolgerlo nella ricerca dello Yage, la droga perfetta, che permette a chi la usi di controllare la mente altrui, quindi di piegare al proprio volere quel mondo così nemico di cui prima si discuteva. Ma anche il viaggio alla conquista di questo graal dei visionari fallirà. Alla fine del viaggio, nelle mani e nel cuore di Lee non resterà nulla. Come già avveniva nel più noto La scimmia sulla schiena (1953; Rizzoli, 1976), anche in Checca le valenze simboliche del testo appaiono, quindi, subito chiare. Può essere un limite, ma, se nel leggere si tralasciano la storia fra Lee e Allerton e la poco perigliosa ricerca dello Yage, emergeranno i veri meriti del libro, che coincidono coi momenti in cui i troppo prevedibili protagonisti vengono messi – diciamo così – da parte anche dall’autore, e a campeggiare sulla pagina è l’ambiente in cui essi si aggirano: un Messico, un Panama e un Ecuador intravisti dal basso, terre di babelica miseria, immerse in uno squallore sempre uguale. Se all’esterno Città del Messico appare gravata da un cielo di un azzurro "crudo, minaccioso, spietato", gli interni della città, sede di "bordelli leggendari", appaiono ancor meno rassicuranti: "Un odore di birra versata, gabinetti intasati e immondizia fermentata aleggiava nel locale come una fitta nebbia e sfiatava sulla strada attraverso le porte a vento strette e scomode. Un televisore fuori uso per metà del tempo che emetteva orribili squittii gutturali dava l’ultimo tocco di sgradevolezza". Allo stesso modo, Quito non ricorda in nulla i magnifici opuscoli delle agenzie turistiche: vi stagna un freddo polare, che gela anche i pensieri. Insomma, una natura ostile. E ostili sono anche gli abitanti, che a dispetto dei loro dollari (quanto a danaro, Lee non se la passa troppo male) vedono nei randagi americani altrettanti cabrones. Più volte Burroughs sottolinea questo disprezzo, che del resto è reciproco, se è vero che anche un santo bevitore come Lee si lascia andare a notazioni schiettamente razziste: "Io vengo nel tuo piccolo paese di merda e spendo i miei bei dollari americani e che succede? Vengo insultato sulla pubblica strada". Ma non si tratta nemmeno della fin troppo vexata quaestio del rapporto fra gli Stati Uniti e i meno fortunati paesi delle due Americhe. Burroughs non intende volare così in alto. Lo impedirebbero la sua stessa poetica, che nega le grandi sintesi, e il convincimento, che in Checca viene addirittura gridato, che le città moderne altro non siano che delle Merdaville (come dice Lee) più o meno estese, dove è bene circolare (come fa Lee) celando sempre sotto i vestiti una pistola.
recensioni di Manferlotti, S. L'Indice del 1999, n. 04
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