Uno, due, tre, quattro. Fino a quindici. Numeri e basta. Così si intitolano i capitoli di Parla, ricordo (brutto il titolo italiano, ci si confonde, sembrano due verbi, mentre il secondo è un sostantivo: molto meglio l'originale, Speak, Memory), autobiografia di Vladimir Nabokov, dalla nascita nel 1899 all'emigrazione in America nel 1940. Scritta prima in inglese, poi in russo, poi di nuovo in inglese: un groviglio di versioni e di lingue, un autentico rebus definito dall'autore "rianglicizzazione di una ri-versione russa di ciò che all'origine era stata la rinarrazione in inglese di ricordi russi". Un reame incantato? Un mondo inventato? Un paese dei sogni? La Russia dei primi anni del Ventesimo secolo: sconfinata, ricca, coltissima, violenta, minacciosa, esplosiva. Per capire la sua tragica grandiosità bisogna ascoltare le voci di chi l'ha conosciuta, di chi ci è vissuto. Quattro voci diversissime l'hanno raccontata, hanno fissato sulla carta, con la passione commossa propria solo delle autobiografie, quel loro mondo infantile straordinario, inghiottito per sempre come Atlantide nel 1917. Sì, bisogna ascoltare come Pasternak nel suo Salvacondotto parla di pittura (il padre), di musica (Skrjabin), di poesia (la sua scelta), come Cvetaeva nel suo Diavolo fa rivivere antenati famosi, professori di storia e di arte, come Mandel'stam scopre nel Francobollo egiziano le sue radici ebraiche, e infine come Nabokov in questo suo Parla, ricordo ricrea il sontuoso mondo dell'aristocrazia pietroburghese. Tutti e quattro hanno perso tutto nel 1917. Tutti e quattro sono tornati nel loro paradiso perduto, perché non sia cancellato, perché ne resti memoria. Che cos'è per Nabokov la memoria? "Io testimonio con passione la suprema conquista della memoria, che consiste nell'uso magistrale di armonie innate allorché raccoglie tra le sue pieghe le tonalità sospese ed errabonde del passato". Un'infanzia perfetta. Serena, lussuosa, spensierata, cosmopolita. Ville, tenute (quella materna di Vyra, vicina a Pietroburgo, e quelle dei parenti a Batovo, Rozestveno), palazzi in città, viaggi, vacanze all'estero, paesaggi esotici, ambienti fastosi. Uno stupefacente corteo di bambinaie, governanti, precettori inglesi, francesi, svizzeri (poi anche russi, quando il padre si accorge che i figli sanno perfettamente l'inglese ma non il russo), decine di servi, cocchieri, portieri, giardinieri, maggiordomi, autisti. Ognuno con il suo breve, talora brevissimo ritratto, voci, baffi, mani, abiti, inflessioni. I primi capitoli sono i più belli, procedono per campi associativi e non per ordine cronologico, c'è una continua eruzione di frammenti incandescenti lanciati sulla pagina in modo scomposto, c'è un magma inarrestabile di odori, luci, colori, volti, oggetti, un'incredibile carica di sensualità, una densità di sensazioni quasi tangibile, una esasperata deformazione di forme, un misterioso turbine di immagini, riprodotte con acribica precisione, con un gusto smodato del particolare. La caverna primordiale? Un grande divano rivestito di cretonne bianco a trifogli neri, scostato dal muro e sigillato in alto da cuscini, in modo da creare un angusto tunnel "come un prodotto di qualche massiccio sconvolgimento geologico occorso prima dell'inizio della storia". O la tenda formata la mattina a letto con le lenzuola sollevate, "nebulosa valanga di biancheria, luce fioca che si fa strada nella semioscurità del mio rifugio da chissà quale immensa distesa lacustre, popolata da animali pallidi, strani". O una manciata di magiche luci, viste di notte dal finestrino di un treno, "che mi facevano cenno dal fianco di una collina lontana, per poi scivolare in una tasca di velluto nero". O il gioco dello spettro di colori con foglie di acero autunnali: "Il verde che sfumava nel giallo limone, il giallo nell'arancio e così via, passando dai rossi ai viola ai marroni violacei, di nuovo ai rossicci e indietro attraverso il giallo al verde". Prima di tutto, la madre. Amatissima, presente dall'inizio incantevole alla malinconica fine. Grande personaggio, figura folgorante per bellezza, dedizione, premura. "Ho ereditato da lei un raffinato simulacro la bellezza di possedere l'intangibile, i beni immateriali e ciò si è rivelato uno splendido allenamento per sopportare le perdite successive". Il suo motto era: "Amare con tutta l'anima e lasciare il resto al fato". Magnifici i suoi regali durante le malattie e le convalescenze (una gigantesca matita Faber, lunga un metro e venti, poligonale, stupenda e inservibile), indimenticabile la morbidezza dei suoi abbracci ("Il tocco di quel reticolo di tenerezza che le mie labbra avvertivano quando baciavo la sua guancia velata torna fino a me vola fino a me − con un grido di gioia fuori dalle finestre azzurre del mio passato azzurro neve"), fantastici i suoi giochi ("Quando si avvicinava l'ora di andare a letto, tirava fuori un mucchio di gioielli per divertirmi: l'incanto, il mistero di tiare scintillanti, anelli e collier non mi parevano affatto inferiori a quelli delle luminarie cittadine in occasione delle feste imperiali"). All'albero genealogico è dedicato il capitolo 3. Il cognome risale all'epoca dell'invasione tatara: c'era una volta, intorno al 1380, un principe Nabok Murza, poi russizzato in Nabokov ai tempi della supremazia moscovita. E alti funzionari, ministri, esploratori, eroi della guerra napoleonica, generali, una nonna figlia di baroni tedeschi, imparentati con pastori protestanti. Una quantità di aneddoti curiosi, di intrecci con avvenimenti famosi (la carrozza con cui Luigi XVI cercò di fuggire da Versailles era di una parente della bisnonna). Non basta: in quelle pagine ricorrono i nomi di Puskin, dei decabristi, di Cechov, di Kleist
E le celebri farfalle? Tutto il capitolo 6 è a loro dedicato. "Dall'età di sette anni tutto ciò che provavo davanti a un rettangolo di luce solare in cornice era dominato da un'unica passione. Se il primo sguardo del mattino andava al sole, il primo pensiero andava alle farfalle che quel sole avrebbe generato". Il capitolo non è lungo, ma per leggerlo ci vuole o altrettanta passione o molta pazienza. Lascio agli entomologi il gusto della lettura. Per arrivare all'altra figura centrale, il padre, bisogna aspettare il capitolo 9, tutto dedicato a lui. Degli altri membri della famiglia, i fratelli e le sorelle, si parla poco, addirittura pochissimo. Qualche zio (soprattutto quello materno) è ritratto con gusto, ma non c'è vero spazio che per i genitori. Il padre, come la madre, è presente fin dalla prima pagina, dal primo ricordo: splendente nella sua divisa militare bianchissima. Personaggio politico di primo piano, uno dei fondatori del partito costituzionaldemocratico (i cosiddetti cadetti, dalle due iniziali k e d del nome del partito), feroce oppositore dell'autocrazia zarista, uno dei leader della corrente liberale, costretto alla fuga dopo la presa di potere dei bolscevichi, ucciso a Berlino nel 1922 da un terrorista monarchico a soli cinquantadue anni. Con lui fa irruzione la storia: Parla, ricordo è anche un grande ordito di date che sembrano sfiorare appena gli abitanti spensierati di saloni, parchi, dimore patrizie, ma che in realtà preparano in modo funesto il loro destino futuro. Affiorano, talora appena accennati, in modo casuale, gli echi degli avvenimenti che sconvolgono la Russia nei primi anni del secolo, la guerra russo-giapponese, la domenica di sangue, gli scioperi, le manifestazioni del 1905, la prima Duma di cui il padre fa parte. Citazioni brevi, di striscio: i rampolli Nabokov sono tenuti bene al riparo da qualsiasi minaccia. Ma la tragica forza di quegli accenni non sfugge certo al lettore accorto. Con il padre ha un'intesa perfetta: "Il nostro rapporto era contraddistinto da quel consueto scambio di sciocchezze casalinghe, di parole comicamente storpiate, di tentativi di imitare inflessioni immaginarie, di tutta quella comicità scherzosa che costituisce il codice scherzoso delle famiglie felici". Gli ultimi capitoli, i flirt, le sofferte prove poetiche, e poi la fuga nel 1917, il soggiorno in Crimea, l'emigrazione su un'imbarcazione di fortuna, gli anni di Cambridge hanno meno splendore, meno rigoglio, meno incanto. Il paradiso è perduto. Ma, nonostante la dura, palese polemica con Lenin e il suo regime sanguinoso, liberticida, non c'è rimpianto, non c'è rancore. "Il mio disprezzo per l'émigré che 'odia i Rossi' perché gli hanno 'rubato' soldi e terre è assoluto. La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell'infanzia perduta, e non il dolore per le perdute banconote". Fausto Malcovati
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